• Responsabile Sezione Sustainability

    Lavora presso AVEPA (Agenzia Veneta per i Pagamenti) dove per 13 anni ha svolto il ruolo di auditor interno, occupandosi successivamente di gestione documentale, digitalizzazione, gestione dei dati personali, tematiche sulle quali ha svolto attività di formazione per il personale interno e per gli studenti degli istituti scolastici sul territorio veneto. Promuove in prima persona progetti di cultura e alfabetizzazione digitale presso gli istituti di istruzione primaria e secondaria, sia in lingua italiana che in lingua spagnola.

     

Abstract

In pochi anni l’istruzione scolastica ha dovuto inserire le “competenze digitali” all’interno dei programmi educativi, alla rincorsa del progresso tecnologico. La necessità di infondere un sapere rapidamente spendibile, richiesto anche dal mercato del lavoro, ha però favorito un approccio “istruttivo”, a discapito dell’approfondimento critico mirato alla comprensione del fenomeno digitale. Non sarà pericoloso? “We don’t need no education, we don’t need no thought control” dicevano i Pink Floyd nel capolavoro The Wall. Studenti che conoscono ma non comprendono rischiano di diventare “un altro mattone nel muro”, vittime di un sistema che li equipaggia tecnicamente, ma non li prepara ad affrontare la complessità etica, sociale e cognitiva del digitale. Gli algoritmi dell’innovazione, favorendo la diffusione di luoghi comuni, ignoranza e pigrizia mentale cementificati dalle comodità, dall’ipertrofia informativa e dalle manipolazioni, hanno eretto il muro, ma non deve diventare “troppo alto”.

La rivoluzione digitale

Non di rado accade di accostare al termine “digitale” quello di “rivoluzione”, nel senso che è per lo più opinione condivisa quella secondo cui l’avvento delle tecnologie digitali abbia determinato un cambio di paradigma in tutti gli ambiti del vivere sociale.

Ciò cui assistiamo oggi ha mosso i primi passi nella metà degli anni ’30, quando il matematico Alan Turing ha ideato il modello teorico di una macchina universale (la macchina di Turing appunto) in grado di eseguire calcoli attraverso istruzioni programmate. Da lì una serie di traguardi, ottenuti su impulso prima bellico, poi economico e commerciale, ha scandito le tappe di una lenta ma costante trasformazione: i primi computer elettronici in grado di eseguire calcoli complessi (Seconda Guerra mondiale), la miniaturizzazione dei circuiti grazie ai transistor (anni ’50), i computer “da tavolo”, Internet, che dagli anni ‘90 trasforma il digitale in un fenomeno globale, e la nascita delle piattaforme di social media.

Nel Secondo dopoguerra prende vita anche l’idea delle macchine intelligenti e nel 1950 Turing, cercando di porsi nel modo corretto la domanda “le macchine possono pensare?”[1], ha ideato il noto test (di Turing), un “gioco dell’imitazione” che valutava quanto una macchina riusciva ad essere scambiata per un essere umano in una conversazione scritta con una persona. Da allora la ricerca sull’AI non si è mai arrestata, anche se ha subito diversi rallentamenti, ma è negli ultimi anni che il fenomeno è esploso grazie ai risultati ottenuti dall’apprendimento automatico, che oggi dispone dei big data e grande capacità di calcolo.

Questo percorso di “insinuazione” graduale del digitale nel tessuto economico e sociale mi riporta alla mente le parole di Bruno Munari, figura poliedrica dell’arte e del design italiano, secondo il quale “i cambiamenti più profondi e duraturi si realizzano silenziosamente, attraverso azioni che penetrano profondamente nella vita quotidiana e influenzano il modo in cui le persone vedono e interagiscono con il mondo”. E così è stato con il digitale, un lento, ma costante cammino che ha mano a mano “facilitato” il nostro lavoro, le nostre relazioni, l’accesso alle informazioni, le nostre attività quotidiane al punto che oggi risulta difficile parlare di un “quotidiano reale” nettamente distinto dal “quotidiano virtuale”.

La scuola digitale

Ovviamente ogni contesto del vivere sociale ha accolto queste nuove dinamiche, inclusa la scuola.

La scuola italiana, secondo i dati contenuti nel report “Principali dati della scuola – Avvio Anno Scolastico 2023/2024” (Focus “Principali dati della scuola – Avvio Anno Scolastico 2023/2024” – Focus “Principali dati della scuola – Avvio Anno Scolastico 2023/2024” – Miur), redatto dal Ministero dell’istruzione e del merito, consta di 7.960 istituzioni scolastiche statali, con un corpo docente composto da 684.592 insegnanti per i posti comuni e 194.481 per il sostegno. Una realtà frammentata, fatta di strutture a volte anche piccole, nella quale secondo il rapporto “Education at a Glance 2024” dell’OCSE (Education at a Glance 2024 – Country notes: Italia | OECD) l’età media del corpo docente è più elevata rispetto alla media dell’OCSE, mentre la percentuale dei docenti di età pari o superiore a 50 anni raggiunge, in tutti i cicli di istruzione, il 53% rispetto al 37% in media nell’area dell’OCSE.

Il lento percorso di adattamento della scuola alle nuove tecnologie inizia intorno al 2007, ma è nel 2015 che si registra un’accelerazione significativa grazie all’adozione del Piano Nazionale Scuola Digitale (PNSD), previsto legge della Buona scuola. Un documento di indirizzo dell’allora Ministro dell’istruzione, dell’università e della ricerca, finalizzato al lancio di una strategia complessiva di innovazione della scuola e supportato da importanti investimenti.

Una nuova iniezione di risorse è arrivata poi dal PNRR, che ha destinato 2,1 miliardi di euro per la trasformazione delle classi tradizionali in ambienti innovativi di apprendimento, per la creazione di laboratori per le professioni digitali del futuro e per la promozione di un programma di formazione alla transizione digitale di tutto il personale scolastico, secondo le Linee programmatiche del Piano Scuola 4.0 adottato dal Ministro dell’istruzione e del merito a giugno 2022.

Si legge nel Piano Scuola 4.0 (dati dell’Osservatorio per la scuola digitale):

  • Fra il 2014 e il 2021 il rapporto fra alunni/dispositivi è passato da 8,9 a 4.
  • L’utilizzo del registro elettronico è salito dal 69% al 99% delle scuole. Sono oltre 40.000 gli ambienti didattici innovativi e digitali realizzati dall’approvazione del Piano nazionale per la scuola digitale (PNSD).
  • Nell’anno scolastico 2017-2018 la percentuale di docenti che utilizzava almeno settimanalmente le tecnologie digitali per fare didattica era del 44,5%, nel 2020-2021 è salita all’84,4%.
  • Il sistema scolastico nazionale può contare sulla presenza di un animatore digitale e di un team di docenti per l’innovazione in ogni scuola (circa 32.000 figure di sistema con compiti di driver dell’innovazione), sulla presenza in tutte le regioni delle équipe territoriali formative, composte da docenti esperti di didattica digitale, su una rete di poli per la formazione sul campo presenti in tutte le regioni (Future labs), di centinaia di reti di scuole che promuovono l’innovazione digitale della didattica.

Quindi le azioni intraprese per digitalizzare la scuola italiana stanno funzionando? Dati alla mano sembrerebbe che quantomeno siano sulla strada giusta. Le dotazioni tecnologiche sono abbastanza diffuse e il quadro delle competenze, su cui convergono strumenti diversi come il PNSD e il Digital Competence Framework for Citizens (oggi alla versione DigComp 2.2), è definito sullo sviluppo di “spirito critico”, “responsabilità” e “consapevolezza”, intrecciando competenze di alfabetizzazione a competenze di cittadinanza digitale.

Sembrerebbe che, a parte la difficoltà di arrivare capillarmente a tutti gli istituti, la comprensibile reticenza/difficoltà di una parte del corpo docente, presumibilmente attribuibile all’età, e qualche aggiustamento sul metodo (non esiste una concreta condivisione di obiettivi, framework, best practice, modelli scalabili), la via sia tracciata.

“We don’t need no education, we don’t need no thought control”

Ma siamo certi che sia davvero la strada giusta? Che non manchi nulla? Oggi la scuola affronta la sfida di integrare la dimensione tecnologica con la formazione umana e la spinta verso il digitale rischia di ridurre l’istruzione ad un equipaggiamento tecnico, che privilegia il “sapere” sacrificando la capacità degli studenti di comprendere il mondo in modo critico e profondo. “We don’t need no education, we don’t need no thought control” dicevano i Pink Floyd nel capolavoro The Wall.

Viviamo nella società dell’informazione, in cui non è più la produzione di beni materiali ad avere il ruolo dominante, ma la vita all’interno della sfera informativa, o infosfera, come la definisce Luciano Floridi, Direttore del Centro di etica digitale di Yale. Una sfera informativa che ci circonda costantemente determinando la difficoltà di distinguere tra reale e virtuale e tra umano, macchina e natura, scrive Floridi nel suo Onlife Manifesto.

Tutto è fuso, un’esperienza virtuale può proseguire nel mondo fisico e un’azione nel mondo virtuale può avere ripercussioni in quello offline. Le due esperienze sono costantemente e profondamente intrecciate senza che sia più possibile dire che una è “falsa” e l’altra “vera”.

Inoltre, con lo sviluppo dei sistemi di Intelligenza artificiale (IA) siamo di fronte a nuove incognite su quale sarà il ruolo dell’uomo in un mondo in cui il potere computazionale delle macchine intelligenti continua ad aumentare, insieme alla quantità di big data disponibili e alla costante diminuzione dei costi necessari per accedervi. Siamo di fronte a nuovi rapporti di potere che ruotano intorno alle informazioni e all’incertezza generata dalla mancanza di informazioni, dove la nuova sfida è la governance.

E l’uomo non è solo colui che cambia il mondo attraverso la tecnologia, ma è anche colui che vive in un mondo che cambia per adattarsi alle esigenze delle macchine. Quando le self driving cars circoleranno per le città, siamo certi che le città manterranno le caratteristiche che hanno oggi? O, rimanendo nel presente, pensiamo al fatto che oggi l’essere umano deve dimostrare ai sistemi/applicazioni che “non è un robot” attraverso i CAPTCHA (Completely Automated Public Turing-test-to-tell Computers and Humans Apart), un test di Turing al contrario.

Alla luce di tutto questo mi chiedo se l’attuale impostazione della scuola digitale non sia troppo focalizzata sugli strumenti e sulle competenze con il rischio di aderire ad un modello di “compliance digitale”, sottovalutando invece lo sviluppo di una comprensione storica, etica, filosofica, antropologica e semantica del fenomeno.

Certamente l’alfabetizzazione è imprescindibile e fondamentale, e l’Italia ha ancora molta strada da fare, come rilevato dal primo Report on the state of the Digital Decade, che dal 2023 sostituisce il DESI, secondo il quale solo il 46% della popolazione italiana possiede competenze digitali di base e questo compromette la capacità di sfruttare le opportunità aperte dal digitale e di esercitare la cittadinanza digitale, con impatti negativi sull’inclusività del nostro Paese.

Istruzione oltre la digital compliance

Ma per fare in modo che i giovani non diventino meccanismi di un processo, “un altro mattone nel muro” appunto, forse dobbiamo andare oltre, aiutandoli a sviluppare quell’intelligenza integrale che consentirà loro di leggere il presente, conoscendo il passato, per interpretare il futuro; di cogliere le opportunità della società dell’informazione, dove è più importante costruire le domande che cercare le risposte; di essere consapevoli dei problemi di natura etica e di cogliere i rischi sociali connessi alla personalizzazione estrema e alla frammentazione dell’esperienza condivisa.

Un approccio storico consentirebbe ai ragazzi di capire come si è evoluto il digitale e come si collega a innovazioni precedenti, permettendo loro di cogliere il contesto e le dinamiche del progresso tecnologico e aiutandoli a vederlo come fase in un processo più lungo e complesso di innovazioni che hanno trasformato la società.

Inoltre, la tecnologia digitale solleva questioni profonde sull’identità, l’etica e la natura della conoscenza e studiare il digitale da un punto di vista filosofico permetterebbe di riflettere criticamente su temi come la privacy, l’intelligenza artificiale, l’autonomia e il controllo, favorendo lo sviluppo di un pensiero critico sul rapporto tra uomo e tecnologia.

Il digitale ha modificato il modo in cui le persone interagiscono, comunicano e percepiscono il mondo e l’approccio antropologico aiuterebbe a capire l’impatto sulle pratiche culturali, sociali e sui valori e permetterebbe di esaminare come diverse società rispondano alla trasformazione digitale in modi differenti.

Per concludere, comprendere il linguaggio e le rappresentazioni digitali attraverso un approccio semantico consentirebbe di analizzare come i significati vengano creati e manipolati nei diversi contesti, per riconoscere il potere dei media digitali e leggere in modo critico i messaggi che ricevono, dalle fake news ai contenuti dei social media.

Il digitale non è solo uno strumento, è una trasformazione che sta riscrivendo la nostra comprensione della realtà ed è importante porre le basi che consentiranno agli studenti questa comprensione già dai primi anni del loro percorso scolastico, per evitare che il muro eretto dai luoghi comuni, dall’ignoranza e dalla pigrizia mentale, cementificati dalle comodità, dall’ipertrofia informativa e dalle manipolazioni, diventi “troppo alto”.

 


NOTE

[1] Nell’articolo “Computing Machinery and Intelligence”, pubblicato nel 1950 sulla rivista Mind, Alan Turing propone di considerare la domanda: “Le macchine possono pensare?” Questo dovrebbe iniziare con le definizioni del significato dei termini “macchina” e “pensare”. Un ritratto di Alan Turing | MATEpristem

PAROLE CHIAVE: competenze / comprensione / intelligenza integrale / rivoluzione / scuola digitale

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