• Professore ordinario di archivistica e archivistica informatica presso l'Università di Macerata e membro del Collegio dei docenti del Dottorato di ricerca in Scienze documentarie, linguistiche e letterarie dell'Università di Roma La Sapienza. Presidente dell'Associazione Docenti Universitari di Scienze Archivistiche (AIDUSA). È, inoltre, coeditor della rivista "JLIS.it".

Abstract

Il contributo si sofferma sul ruolo degli archivi in quanto strumenti di costruzione e certificazione giuridica della cittadinanza e sul loro ruolo nella costruzione narrativa di una memoria identitaria, facendo riferimento alle conseguenze dei processi di dematerializzazione in atto.

Gli archivi servono a vivere e a sostenere la complessità delle relazioni politiche, sociali ed economiche. Non sono giocattoli con i quali si baloccano innocui cultori del passato, ma sistemi di relazioni qualificate che costituiscono il tessuto connettivo sotteso a qualsiasi procedimento appena complesso.

Agiscono innanzitutto – e prima di tutto – sul presente, a garanzia dei diritti e dei doveri che regolano qualsiasi società organizzata. Senza i documenti non si fa niente. Nei giusti limiti, le carte, come si diceva un tempo, non sono orpelli burocratici, ma strumenti senza i quali la quotidianità non riesce a procedere, a partire proprio dalla determinazione della cittadinanza, requisito basico di partecipazione concreta alla dimensione collettiva che innerva le nostre vite e le nostre attività.

La cittadinanza come sistema “documentato” di relazioni

Lo chiarisce bene il concetto di cittadinanza evinto (tra i molti possibili) dal glossario ISTAT, che parla esplicitamente di “vincolo di appartenenza a uno stato, richiesto e documentato per il godimento di diritti e l’assoggettamento a particolari oneri”.

La cittadinanza è quindi in primo luogo un tecnicismo. È l’espressione codificata di una determinata identità e crea i presupposti per una socialità organizzata che sta alla base di ogni forma di civile convivenza. In tempi di ius soli, ius scholae, e soprattutto di anacronistico razzismo etnocentrico, valutare la dimensione documentaria del problema può allora servirci a metabolizzare questa idea meravigliosa, fatta di diritti e di doveri ben perimetrati.

Secondo questa interpretazione, la cittadinanza sussiste in ragione di un vincolo che si risolve in un sistema “documentato” di relazioni tra le persone e le diverse componenti del corpo sociale. Non è una semplice aspirazione o un diritto naturale e, tanto meno, un valore politico o una semplice affermazione di appartenenza a un determinato contesto. La cittadinanza, al contrario, va costruita e prende corpo e autorevolezza nelle spire di un procedimento complesso e necessariamente certificato in forma scritta.

Il concetto di cittadinanza, per potersi manifestare e sviluppare in pieno la propria funzionalità, impone un sistema di certificazione e un insieme di validazioni che non possono prescindere dalle logiche documentali.

L’archivio in quanto garanzia tecnica di certificazione dei diritti e dei doveri diventa perciò un insopprimibile strumento di cittadinanza. Non a caso nel nostro sistema è una “carta” a garantire l’identità dell’individuo e altrove il clandestino e l’apolide vengono bollati come sans-papiers. I documenti, quando ci sono, azzerano ogni differenza giuridica, e sono l’irrinunciabile punto di partenza di ogni percorso di integrazione e consolidamento della base sociale.

È vero anche che non basta “un pezzo di carta” per garantire l’appartenenza effettiva a una comunità e che molti processi integrativi passano solo per la vita quotidiana e per adeguate politiche sociali, ma sicuramente la dimensione formale ha un suo significato.

L’archivio corrente come strumento di cittadinanza

In quest’ottica l’archivio certificatore asseconda lo spirito costituzionale e si manifesta come strumento di rara efficienza a garanzia dell’integrità e della stabilità del patto sociale. L’archivio è infatti una macchina documentaria che, quando funziona a regime, non si limita a produrre e conservare i dati, ma li qualifica e ne garantisce l’affidabilità nel tempo e nello spazio. Niente organizzazione archivistica niente documenti, con la inevitabile paralisi di qualsiasi attività.

Questo tipo di archivio, che è peraltro l’espressione naturale dell’atto archiviante, non è quindi un semplice contenitore di memoria e nemmeno il risultato dello stoccaggio di dati di diversa natura.

L’archivio, nella sua dimensione corrente, deve funzionare a prescindere da ogni divagazione meta documentaria e ci impone una cultura della gestione documentale la cui rilevanza va molto oltre gli accorati appelli a una buona tenuta degli archivi che si levano dalla comunità professionale e scientifica di riferimento. Se l’archivio è strumento di cittadinanza, la sua corretta tenuta è un serio problema della collettività, non solo dei professionisti del settore.

Il ruolo dell’archivio non si limita quindi a una mera certificazione, ma si estende a un’ampia gamma di comportamenti virtuosi che definiscono il cittadino in quanto parte attiva della comunità cui si riferisce.

Per queste ragioni, ancora prima del manifestarsi del diritto alla memoria, l’archivio è un corpo sensibile e rappresentativo degli equilibri di un sistema nel suo complesso. L’archivio attivo, con le sue dinamiche, è un testimone dell’efficienza della società che lo produce e in particolare è il termometro del rapporto tra cittadini e pubblica amministrazione.

Il potere degli archivi, quindi, non emana da astrazioni concettuali, ma da prestazioni misurabili e, soprattutto, regolamentate. Le buone pratiche di tenuta documentale, non sono ingenue aspirazioni dell’archivistica. Sono leggi da rispettare. Venire meno a queste modalità di trattamento degli archivi non è una pur deprecabile trascuratezza, ma un reato perseguibile e da perseguire. La cattiva gestione degli archivi è un crimine manifesto nei confronti dei cittadini e delle stesse amministrazioni.

A questo livello, ammesso questo, si manifesta un deficit attitudinale, politico e culturale che continua ad alimentare luoghi comuni sull’idea stessa di archivio. Considerare l’archivio un ammasso polveroso o comunque un noioso sistema di stoccaggio segnala infatti l’immaturità politica delle classi dirigenti e la debolezza di insieme di una società che non vuole tenere in ordine i propri conti.

L’archivio corrente contribuisce a definire una cittadinanza attiva e rende possibile l’effettiva partecipazione dei cittadini alla vita delle loro comunità di riferimento. In poche parole, è cultura delle istituzioni.

L’archivistica come esercizio di educazione civica

L’archivistica in questo tipo di approccio non è solo una tecnica ma è prima di tutto esercizio di educazione civica, se è vero come è vero che il cittadino educato è quello garantito nei diritti e rispettoso dei doveri. È una disciplina fortemente radicata nel presente, che sa spendersi a vantaggio di tutti, non tanto per difendere astrattamente gli archivi, quanto per sostenerne il ruolo quotidiano e determinante.

Gli archivi, e gli interessi che essi tutelano, si difendono tenendo lo sguardo fisso sul presente, non rinchiudendoli dentro a un beneculturalismo astratto e meravigliato. Detto questo non si può però fare a meno di dare un’occhiata all’altra faccia della luna.

Come sappiamo bene, infatti, l’archivio si esprime in pieno solo nella sua marcata polifunzionalità e, anche quando si enfatizza la sua funzione quotidiana, non se ne può trascurare il respiro storico. Nel nostro caso, se la vediamo da questo punto di vista, l’idea complessiva di cittadinanza intercetta valori altri e diversi dalla semplice partecipazione certificata e si affaccia sui temi inesauribili delle radici e dell’identità. Se ci si tiene alla larga dalla retorica sciovinista di comuni radici date a prescindere, e spesso millantate contro ogni ragionevole evidenza, l’archivio può farsi anche strumento di comunanza culturale. Può essere il terreno sul quale si costruiscono narrazioni funzionali all’identificazione vera o presunta di una determinata cultura, dove prende corpo la rassicurante continuità di uno spazio-tempo che ci contiene e ci qualifica.

La dimensione documentale digitale non può prescindere dai principi archivistici

Tutto questo è ancora più vero nei processi di dematerializzazione che quasi paradossalmente sembrano nascondere il ruolo dell’archivio e dell’archivistica dietro ad automatismi esogeni e incontrollabili.

Dentro a sistemi di gestione documentale che si affacciano sempre più spesso nei dintorni delle intelligenze artificiali, e che insinuano suggestioni di intangibile ed autonoma efficacia meccanica, la faticosa dimensione archivistica rischia infatti di essere accantonata a tutto vantaggio di potenti tassonomie automatizzate. Tende a prevalere l’illusione della capienza infinita e di un “archivio totale e finale” inteso come illimitata capacità di espansione di una memoria indistinta.

Indipendentemente da ogni altra valutazione, però, il mito quantitativo pone seri problemi di finalizzazione: ammesso che io possa accumulare enormi masse di dati in che modo li posso poi effettivamente utilizzare? E, ancora, qual è l’effettiva tracciabilità, affidabilità e qualità di questi dati quando li voglia declinare nell’uso reale? La memoria totale, automatica e aliena, non ha senso se non si risponde a queste domande, e per rispondere servono metodi e parametri di riferimento che in ultima analisi sono quelli dell’archivistica, sia pure adattati ai tempi nuovi. Se non li si considera, fosse solo come ammonimenti, si rischia il paradosso di una memoria schiacciata dal suo stesso peso, dilatata fino all’infinito ma inutilizzabile perché fantasmatica.

È un pericolo reale di cui qua e là si colgono già gli esiti. Evidenziarlo non significa però difendere d’ufficio gli interessi di una corporazione che rischia di farsi davvero residuale, senza mettersi in discussione. Al contrario, quello che sta accadendo impatta con forza sugli statuti disciplinari e impone agli archivisti un intenso sforzo di adeguamento psicoattitudinale. La difesa dei concreti valori archivistici non risiede nella loro liofilizzazione e nella fuga da una realtà che è ormai diversa da come la avevamo pensata. Gli archivi, e la percezione che se ne può avere – non smetteranno mai di cambiare[1]. Li dobbiamo rincorrere, non cercare di forzarli dentro a stampi velleitari che non li contengono più.

Ma cosa significa rincorrere gli archivi nel mondo dematerializzato? Credo che innanzitutto ci si debba sforzare di riconoscerli come tali, indipendentemente dalle fattezze che essi possano assumere. Il punto cruciale della dematerializzazione, da questo punto di vista, sta proprio nella capacità che avremo di chiamare archivio anche tutto ciò che sembra tradire le nostre confortevoli definizioni. Si deve andare incontro alla realtà, non ingegnarsi a tracciare le traiettorie più utili ad evitarla.

Questa realtà, se la riportiamo alla sua essenza, è fatta di “diritti digitali che, grazie al supporto di una serie di strumenti e processi (ad esempio l’identità digitale, la posta elettronica certificata e il domicilio digitale, le firme elettroniche, i pagamenti informatici), contribuiscono a facilitare a cittadini e imprese la fruizione dei servizi della Pubblica Amministrazione. Conoscere tali strumenti e le norme che ne regolano l’uso, consente inoltre di semplificare il rapporto tra cittadini, imprese e Pubblica Amministrazione”[2]. In questa lettura l’archivio è un concorso di cause, una giungla interoperabile nella quale ognuno di questi “strumenti” si nutre di dati diversificati e fluttuanti da sottoporre ogni volta a uno specifico trattamento.

Serve una gestione documentale scevra da retropensieri, immediata, da insegnare ai sistemi che agiscono in regime di interoperabilità. Per tutti questi motivi la costruzione documentale digitale non può prescindere dai principi archivistici, ma quei principi devono prendere atto delle profonde trasformazioni delle modalità complessive secondo le quali si producono e si gestiscono gli archivi. Se la vediamo così la questione non è soltanto tecnica e tecnologica, ma investe una volta di più il corpo sociale nella sua interezza. È una faccenda tutta politica, che si traduce nella necessaria negoziazione tra i valori e le tattiche archivistiche e le modalità secondo le quali gli archivi ormai si esprimono.

La progettualità archivistica al servizio di una dematerializzazione critica e affidabile

Tornando al nostro tema specifico, non è difficile comprendere che, anche quando la cittadinanza si fa digitale e si arricchisce di funzionalità tecnologiche che ne potenziano l’efficacia, i dati, i documenti, gli archivi e il loro trattamento non perdono il loro ruolo. Se possibile, anzi, tale ruolo viene enfatizzato dal progressivo abbandono della mediazione fisica tra i diversi soggetti, dentro a meccanismi integrati che impongono procedure rigorose, replicabili e, per certi versi infallibili, dal momento che si sviluppano fuori da una dimensione fisica nella quale eventuali correttivi a posteriori erano più praticabili.

La macchina soffre di allucinazioni nella misura in cui chi ne detiene davvero lo spirito è a sua volta fallace. Il rigore progettuale dell’archivistica può aiutare e ridimensionare i bias che fluttuano in una transizione digitale ancora incompiuta. La chiave di volta sta nella parola progettazione, perché l’archivio digitale è una sorta di creatura di laboratorio. Deve essere attentamente calibrato, evitando di lasciarlo a sé stesso e a derive massive di stoccaggio senza limiti.  Il fine ultimo e prioritario è quello di una conservazione polifunzionale e distribuita nel tempo, ma non c’è conservazione, nemmeno di brevissimo periodo, se non esiste un ordine e un’organizzazione dell’informazione.

Conservare dati indistinti non ha senso, se è vero, come è vero, che si conserva per consultare. Una conservazione strutturata, motivata e consapevole è quindi la sola garanzia del perdurare della funzione archivistica e al tempo stesso l’unica ragionevole speranza di dare profondità cronologica ai documenti per poterne continuare a fare strumenti di identità individuale e collettiva. Dietro le quinte della cittadinanza dematerializzata, per queste ragioni, continuano a muoversi professionisti dell’organizzazione documentale, responsabili della conservazione, record manager, ovvero, in una sola parola, archivisti.

Nel mondo nuovo, però, l’identità e la cittadinanza intesa come appartenenza a un determinato sistema politico, giuridico e culturale, non sono più solo il risultato di gerarchie sancite dalla norma e in qualche modo calate dall’alto.

La globalizzazione mostra il suo lato debole proprio nel momento in cui si fa strada un bisogno identitario che sfugge alle generalizzazioni e che rifiuta universali schemi pregiudiziali. Proprio nella fluida creatività digitale possono allora prendere corpo istanze documentarie in controtendenza che usano l’idea di archivio per sottolineare differenze di pensiero, di stili di vita e di aspirazioni identitarie. Negli archivi partecipativi o nei living archives non ci si riconosce più nella norma condivisa, ma nella contiguità di un pensiero “eversivo” o comunque fuori dalle logiche del mainstream.

Qui il cerchio si chiude, ovvero si moltiplicano le sue possibili repliche, perché l’archivio strumento di cittadinanza organica, strutturata e di autorità si ribalta e sovverte l’ordine. Una società complessa e per certi versi alla deriva e in cerca di modelli di riferimento non si esaurisce infatti nella sua rappresentazione gerarchica. Ha bisogno di scaricare la sua complessità, di aprire nuovi spazi di partecipazione e di far sentire la sua voce fuori dal coro del pensiero unico e omologato.

La cittadinanza, alla fine, è questione di punti di vista… documentari.

 


NOTE

[1] Federico Valacchi, La verità di carta. A cosa servono gli archivi, Graphè, Perugia, 2023.

[2] AGID, GUIDA DEI DIRITTI DI CITTADINANZA DIGITALI.

 

Indice

PAROLE CHIAVE: archivi / cittadinanza digitale / dematerializzazione / gestione documentale

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