È con emozione – un sentimento quasi desueto nella narrazione algoritmica che governa il nostro tempo – che mi accingo ad aprire questo Numero 6 della Rivista Digeat. Per la prima volta, come Vicedirettrice, mi è stato chiesto non solo di partecipare al lavoro di redazione ma di imprimere un tono, un’apertura, un respiro a ciò che leggerete. E sento, sinceramente, una duplice tensione: da un lato la lusinga e la gratitudine per la fiducia ricevuta; dall’altro la responsabilità – morale, culturale, editoriale – di prendere parola per arrivare al cuore di una società attraversata da crisi multiple.
Il tema di questo numero – l’autenticità – ci porta in un terreno scivoloso, forse il più ambiguo e sfuggente dei nostri tempi. Perché l’autenticità, oggi, è parola inflazionata, mercificata, ridotta spesso a slogan pubblicitario. Tutto è “autentico”: dal pane industriale al profilo social ritoccato.
Ma è proprio in questa inflazione che si cela l’inganno: ciò che è autentico, per definizione, non ha bisogno di essere proclamato. L’autenticità, semplicemente, è. Non si dichiara, si dimostra.
Si riconosce. Oppure si perde.
In questo senso, dedicare un’intera uscita alla domanda sull’autenticità è quasi una provocazione. Una sfida. A noi stessi prima di tutto, e poi all’intera società digitale in cui viviamo, dove l’identità è un costrutto mutevole, performativo, iper-connesso. Dove le emozioni si riducono a emoji e le relazioni si strutturano in base a un algoritmo. Dove la parola “vero” ha smesso di significare qualcosa di stabile, ed è diventata negoziabile, scalabile, perfino vendibile. È vero ciò a cui crediamo!
Eppure, è proprio in questo tempo contaminato, in quest’epoca della post-verità, delle fake news, dell’intelligenza artificiale che simula e sostituisce, che parlare di autenticità è necessario.
Anzi, vitale. Perché ci costringe a chiederci chi siamo davvero, cosa riconosciamo come vero, cosa siamo disposti a difendere dell’umano che resta in noi. Ed è questo il filo conduttore che lega tutti i contributi di questo numero: una riflessione corale sull’autenticità, nella sua dimensione personale, storica, tecnologica, politica.
Nei saggi che seguiranno, troverete voci differenti ma non dissonanti. Studiosi, tecnici e giuristi che ci parlano di come la verità sia minacciata non solo dai deepfake o dall’AI generativa, ma anche da un più subdolo processo di anestesia collettiva. Dove tutto è opinione, dove tutto vale, dove nulla resta.
Interessante il punto di vista di Adriana Augenti: “…L’autenticità non può più essere concepita come una qualità binaria, ma va ripensata come uno spettro, un gradiente che ammette infinite sfumature e modalità di manifestazione… Essa emerge ora come valore fondamentalmente relazionale: non risiede nell’opera in sé, ma nella rete di connessioni che la legano ai suoi creatori, alle sue fonti, ai suoi fruitori – in altre parole, all’intero tessuto culturale in cui si inserisce.”
Un altro nodo cruciale è quello dell’identità e dell’identificazione, concetti spesso confusi, capaci di esporci a grossi rischi e a inevitabili conseguenze dannose: “Anche i metodi di autenticazione più robusti, come il secondo fattore di autenticazione (2FA), infatti, non sono esenti da vulnerabilità”. Pierangelo Felici nel suo contributo spiega che l’autenticità va protetta.
L’autenticità, oggi, ci interpella come cittadini, come professionisti, come esseri umani.
C’è poi, nel cuore di tutto questo, un’esigenza spirituale. Non necessariamente religiosa, ma spirituale nel senso più profondo: una domanda sul senso. Perché se l’autenticità è relazione tra ciò che siamo e ciò che diciamo di essere, allora riguarda la verità.
La ricerca dell’autenticità e della verità in un mondo così globale e saturo di informazioni è anche ricerca delle parole giuste.
Pensiamo al linguaggio di guerra dove ogni parola ha un peso, ogni parola ha un volto.
Da persone libere, possiamo ancora disarmare il linguaggio, disarmare le parole, disarmare la comunicazione, avanzando a passo lento e restituendo profondità e coerenza di vita.
Digeat, per impostazione, rappresenta un luogo in cui la riflessione torna a decantare, a farsi sedimentazione e non scorrimento compulsivo e il mio augurio è che questo numero vi accompagni con la stessa inquietudine con cui lo abbiamo immaginato. Con la stessa necessità di rallentare per ascoltare davvero. Perché non c’è autenticità senza ascolto. Non c’è autenticità senza responsabilità. Non c’è autenticità senza rischio.
Ed è in questo rischio che si misura, oggi, la nostra umanità.
Buona lettura.
PAROLE CHIAVE: autenticità / Identità / umanità
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