• Responsabile Sezione eArchiving

    Archivista, records manager, esperta nella dematerializzazione e semplificazione dei procedimenti nella pubblica amministrazione.

  • Vicedirettrice del progetto editoriale Digeat. Archivista presso Studio Legale Lisi, si occupa di consulenza nei processi di governance digitale e documentale e della redazione di articoli di settore.

Abstract

Proprio una formula magica può in buona parte riassumere uno dei “segreti” dell’archivistica. Abracadabra discende dall’aramaico Avrah KaDabra che significa “Io creerò come parlo”. E non è forse questo uno dei principali impegni della professione archivistica? L’archivista è chiamato a “creare con la parola”, ossia a (ri)creare un ordine che prima non c’era utilizzando termini e dunque strumenti in grado di restituire al cuore della memoria di un qualsiasi Ente un ritmo che sia vitale, coerente e sostenibile, evitandone la polverizzazione. Vediamo come il suo ruolo sia oggi più che mai indispensabile per “arginare” correttamente la gestione e la conservazione del patrimonio informativo, in ambito pubblico e privato.

In archivistica non esistono formule magiche. Certamente si tratta di una caratteristica che accomuna la maggior parte degli orientamenti professionali, eppure proprio in ambito archivistico è necessario sottolineare questo aspetto.
Sì perché, quando si ha a che fare con metri, se non kilometri lineari di scaffalature o, magari, con giga, se non terabyte di dati stivati su server dislocati dall’altra parte del mondo – o, peggio, con l’uno e con l’altro contestualmente- ecco è necessario ripetere (e ripetersi) che non esiste una formula magica per far fronte a una mole di lavoro di simile, ma esiste una disciplina, un metodo che ci aiuta con la sua teoria a far fronte alla pratica della gestione del patrimonio informativo.

L’archivistica è l’abracadabra della memoria

Eppure, si potrebbe osare affermando che proprio l’archivistica costituisca di per sé una sorta di formula “magica” per organizzare la memoria, una sorta di “Abracadabra” metodologico. Usiamo non a caso questo termine, oramai banalizzato e stucchevole, che però vanta un significato avvolto nell’enigma e risalente ad un’origine ben antica: è una parola che discende dall’aramaico Avrah KaDabra che significa “Io creerò come parlo”.

L’etimologia è una di quelle discipline che ci viene sovente in aiuto per squarciare veli legati a delle abitudini linguistiche che condizionano immancabilmente il nostro punto di vista. Ed ecco che squarciato il velo caricaturale che questa parola ha assunto con il tempo, ci accorgiamo di come proprio una formula simile possa in buona parte riassumere uno dei “segreti” (per non dire una parta di magia) dell’archivistica.

Ricordiamoci che, per quanto si tratti di un campo complesso e multiforme che si avvale di diverse metodologie e approcci teorici, lo studio degli archivi comporta tra le sue attività, due fasi cruciali:

  • la descrizione dei documenti attraverso specifici strumenti di corredo e di ricerca;
  • l’ordinamento, in grado di rendere facilmente consultabili complessi documentari altrimenti inaccessibili.

Ebbene è specialmente in queste due fasi (ma non solo) che l’archivista è chiamato a “creare con la parola”, ossia a (ri)creare un ordine che prima non c’era utilizzando termini e dunque strumenti in grado di restituire al cuore della memoria di un qualsiasi Ente un ritmo che sia vitale, coerente e sostenibile.

Formazione, gestione e conservazione: arginare con la parola

Le Linee Guida AgID ci aiutano a ripercorrere passo, dopo passo l’intero ciclo di vita documentale utilizzando un particolare approccio “olistico”, cioè, orientato ad aggregare in un “corpo unico” materie “prima disciplinate separatamente”[1]. Questa specifica è davvero affascinante, perché è come ammettere che l’archivistica non “viaggia da sola”, ma affinché sia davvero efficace ha bisogno di vivere una sorta di osmosi con discipline affini, alcune da sempre vicine (o come le si è spesso definite in accezione negativa, “ausiliaria” della storia) la paleografia e la diplomatica, altre più distanti, ma incredibilmente affini come l’informatica e la stessa giurisprudenza.

Anche se in molti lo ignorano, l’archivista è chiamato ad operare in qualsiasi contesto, sia esso pubblico o privato e spesso, il suo coinvolgimento deve in qualche modo ricalcare il principio espresso da Martin Luther King, “la mia libertà finisce dove comincia la vostra”, l’archivista sa di dover arginare la propria azione sulla base della coesistenza di diverse professionalità chiamate ad operare contestualmente sullo stesso oggetto, l’archivio. Eppure, è propria solo all’archivista la suddetta facoltà di “creare con la parola”.

Scegliendo di soffermarci sulla parte attiva del nostro archivio[2], cui appartengono le fasi di formazione e della gestione del documento, l’archivista è chiamato a definire il Titolario di classificazione, con annesso piano di fascicolazione, integrato con il piano di conservazione, nel quale vengono definiti i tempi di conservazione delle tipologie documentali ricavate dall’indagine effettuata in fase di redazione del Titolario stesso, recante i  criteri e le tempistiche di selezione. E per quanto concerne proprio la definizione dei tempi di conservazione, l’archivista deve predisporre gli strumenti necessari per organizzare un archivio in modo soggettivo: il documento finale nel quale saranno presenti tutti questi documenti è il Manuale di gestione[3]: altro non sta facendo se non creare con la parola.

E ammettiamolo pure che, fin troppo spesso -soprattutto in ambito privato- si tratta di un’autentica creazione da zero, laddove non esistono modelli di riferimento validi ai quali ispirarsi per restituire la specificità della struttura dell’Ente/azienda. E per quanto l’approccio possa essere olistico, la gravosità del compito di “creare con la parola” resta in capo al “povero” archivista/Responsabile della Gestione documentale che deve capire come organizzare per poi descrivere al meglio le modalità di sedimentazione della memoria dell’ente di riferimento, annotando scrupolosamente ogni aggiornamento che determina le revisioni periodiche, garantendone l’efficacia degli strumenti adottati. Stessa cosa dicasi specularmente per il Responsabile della Conservazione e per la parte relativa alla conservazione dei documenti digitali.

I metadati: il vero “trucco” della conservazione

Partendo dal presupposto che nel nostro Ente o addirittura nella nostra Azienda, siano già presenti tutti gli strumenti fin qui menzionati (Titolario di classificazione, piano di fascicolazione, piano di conservazione, censimento delle serie documentali) per garantire nel tempo l’efficacia probatoria del documento risulta indispensabile l’invio in conservazione. Se però negli archivi in formazione, quindi nella parte che precede la conservazione digitale, erano solo gli strumenti archivistici a guidarne la sedimentazione e a garantirne il reperimento, in ambiente digitale sono i metadati e la conseguente definizione degli stessi a fungere da “trucco” magico per la salvaguardia del patrimonio informativo.

In linea ideale si dovrebbe partire da un’unità documentale correttamente formata e corredata delle informazioni essenziali, tra cui l’individuazione della classe documentale. Per ogni classe sono da definire, oltre ai metadati obbligatori in base alle Linee guida, quelli specifici che sono di corredo o funzionali per il reperimento successivo del documento, non solo: saranno anche definiti i tempi di invio in conservazione dei documenti (che sono ovviamente differenti da quelli di conservazione dei documenti stessi).

E anche in questo caso la magia dell’abracadabra torna a bussare insistentemente alla porta, richiamando la nostra attenzione proprio alla fase di formazione del documento e della sua memorizzazione sui software che abbiamo a disposizione. Nulla viene sprecato e quanto più il set di informazioni di corredo è accuratamente definito in fase primordiale, tanto più “magicamente” questi stessi metadati seguiranno il documento all’atto dell’invio in conservazione, garantendone la corretta sedimentazione.

L’ambiente di conservazione che è sia logicamente, che fisicamente distinto dall’ambiente di produzione del documento è per l’Ente e per l’Azienda il luogo in cui si conservano i documenti, nel quale saranno difesi, mediate la trasformazione diretta dei formati che preverrà le offese procurate dal tempo a causa dell’obsolescenza.

Ma pensiamo anche alla polverizzazione dei nostri archivi. Con il cartaceo, sia per le PA, che soprattutto per i privati, tendevano a considerare l’archivio “una cosa unica” collocata prevalentemente in locale spesso asfittico e insalubre.

Il fenomeno della polverizzazione degli archivi: magia? No, realtà

In ambiente digitale accade pressoché il contrario, ossia la parcellizzazione dell’archivio: le tipologie documentali che vengono prodotte o gestite con determinati applicativi, di differenti aziende fornitrici possono essere destinati presso conservatori digitali differenti e questo non è assolutamente contrario a nessuna logica, se non quella della necessità nel tempo di garantire la reperibilità del documento. Ci servirebbe pertanto una mappa del tesoro ovvero un documento nel quale sulla base dello schema di organizzazione del nostro archivio (titolario di classificazione) ci consenta poi creare un elenco di consistenza nel quale vengono riferiti per ogni serie/tipologia di documenti la relativa collocazione presso un determinato conservatore.

La nuova frontiera della conservazione digitale deve necessariamente prevedere anche un elenco di consistenza dell’archivio, nelle sue articolazioni e nelle sue differenti sedimentazioni (presso differenti conservatori ditali) anche mantenendo traccia di quei “rami secchi” ovvero delle tipologie documentali che nel tempo si sono interrotte.

La puntuale e lucida visione del patrimonio documentale della PA o dell’Azienda può essere in modo schematico incardinato sul Titolario di classificazione creando così una soluzione di continuità tra l’ambiente di gestione e quello di conservazione.

Bisognerebbe di fatto pensare a ulteriori strumenti in grado di mappare le “sovrastrutture” archivistiche, ossia le diverse configurazioni che il fenomeno della polverizzazione rende possibili, seguendo le vicissitudini archiviste del Soggetto di riferimento, che spesso finisce per non aver contezza del moltiplicarsi dei contratti di outsourcing all’attivo e dell’effettivo rispetto degli accordi tecnici definiti per l’attivazione del servizio di conservazione presso ciascuno dei rispettivi outsourcee coinvolti.

Quando l’argine si rompe: la questione dello scarto

Sebbene una parte del fascino degli archivi -in particolare cartacei- risieda proprio nell’incognita del contenuto, tant’è che li si potrebbe paragonare alla famosa “scatola di cioccolatini” del celebre Forrest Gump interpretato da Tom Hanks, ad oggi è chiaro che una corretta gestione dei documenti sin dalla loro formazione rappresenta la migliore garanzia per l’ottimizzazione del ciclo di vita del documento anche ai fini della conservazione a lungo termine. Ebbene è al confine tra la parte attiva e quella inattiva del patrimonio documentale che si colloca quella famosa procedura che è lo scarto, funzionale al mantenimento della memoria dell’Ente, in maniera sostenibile. Le parti attive della vita di un documento sono principalmente due, la gestione e lo scarto. La gestione in quanto attività legata all’evolversi della trattazione dell’affare, fino alla sua chiusura all’interno di un fascicolo, sia esso analogico o digitale. L’archivio e quindi i suoi sedimenti si riattivano con il passare del tempo quando perdendo il loro interesse legato alla trattazione diventano però interessanti e interessati dalla selezione.

Le Linee Guida AgID dedicano al “trasferimento al sistema di conservazione” un sottile paragrafo che nulla accenna oltre alla variabile delle tempistiche[4]. Eppure, è proprio in questo frangente che “il trucco” dato dalla magia dell’archivistica c’è (e si vede), con chiaro impatto visivo molto palese sugli archivi analogici. È qui che l’archivista raccolti tutti gli strumenti che hanno guidato la sedimentazione dell’archivio verificata la storia del soggetto produttore, le peculiarità e soprattutto l’assenza o meno di cause in corso, può procedere alla selezione. Intervento fatto negli archivi lungo metri o chilometri di carta alloggiata più o meno ordinatamente su scaffali. La selezione e quindi l’individuazione di quanto non necessita di una conservazione permanente spesso è subordinato però alla conservazione a tempo indeterminato, ad esempio posso scartare le fatture e i mandati di pagamento, ma devo avere i mastri della contabilità per le PA, non solo ai fini storici. È anche necessario conservare una campionatura dei documenti che saranno poi scartati.

Il piano di conservazione rappresenta la pozione magica dell’archivista che scioglie i dubbi su quanto deve essere consegnato alla storia, definendone i tempi nei quali dovranno essere enucleati i documenti che mai rivestiranno interesse in quanto non degni di nota, ma che hanno rivestito nei primi anni della loro vita rilevanza amministrativa, giuridica o fiscale.

La selezione e il conseguente scarto è da intendersi come un’operazione tanto indispensabile quanto traumatica, ma fa parte del ciclo di vita del documento.

Se l’archivio è costituito dalla sedimentazione dei documenti prodotti e ricevuti nell’espletamento delle funzioni da parte del soggetto produttore, la definizione delle articolazioni dei rami del titolario rispecchiano in modo schematico e organizzato i conseguenti documenti e le tempistiche per la loro conservazione. Con il digitale cambiano però le prospettive delle tempistiche in cui avviene il processo di selezione, introducendo il concetto di conservazione fin dalla nascita del documento stesso attraverso l’associazione costante nei metadati dei termini entro i quali i documenti potrebbero e saranno sottoposti allo scarto.  Quindi portando i documenti in conservazione saranno i documenti stessi a presentarsi all’archivista che diventa parte passiva.

Cambia lo scandire del tempo, l’archivista nell’analogico è attivo nella predisposizione degli strumenti che ne definiscono i tempi di conservazione ed è attore principale della selezione che viene effettuata negli archivi. In ambiente digitale resta stabile la sua presenza nella definizione degli strumenti di selezione, ma si assicura dalla fase di formazione o ricezione del documento che a questo venga apposta la “data di scadenza” ovvero il termine di conservazione.

Potremmo quindi dire che il processo di selezione potrà essere automatizzato, ma l’automazione toglie il fascino all’alchimia dell’archivista, pur costituendo un lavoro indispensabile per ottimizzare i nostri archivi del futuro, composti da milioni di informazioni. Tuttavia anche il digitale deve necessariamente tener conto della prospettiva storica, con tutte le sue sfumature.

Il rischio dell’automazione è proprio quello di un appiattimento della memoria, finendo per privare l’archivio della sua anima autentica, rendendo la conservazione un’operazione seriale, fatta di input/output, che per quanto ingegneristicamente funzionali, non riusciranno un domani a restituirci l’effetto “scatola di cioccolatini” e rendere qualche piccolo imprevisto, qualche documento “inaspettatamente” conservato una preziosa testimonianza utile per ricostruire il cuore pulsante della vita dell’Ente/Azienda nella sua complessità.

Ricordiamoci che l’archivista non è solo abile nel creare con la parola, ma anche nell’arginare con la parola stessa la perdita del valore del patrimonio informativo, del suo cuore pulsante, prevenendo con cura pericolosi automatismi che necessitano sempre della capacità squisitamente umana di cogliere delle sfumature altrimenti impercettibili alla macchina.

Continuiamo a credere nella magia degli archivi.


NOTE

[1] Parafrasando quando contenuto nel testo delle Linee Guida sulla formazione, gestione e conservazione dei documenti informatici al par. 1.9 Premessa metodologica

[2] Come ci ricordano le stesse Linee Guida AgID al Par. 1.11 Principi generali della gestione documentale “la gestione documentale è un processo che può essere suddiviso in tre fasi principali: formazione, gestione e conservazione. Nell’ambito di ognuna delle suddette fasi si svolgono una serie di attività che si distinguono per complessità, impatto, natura, finalità e/o effetto, anche giuridico, alle quali corrispondono approcci metodologici e prassi operative distinte”.

[3] Per comprendere appieno la gravosità del compito, si rinvia alla lettura del Par. 3.5 Manuale di gestione documentale

[4] Linee Guida sulla formazione, gestione e conservazione dei documenti informatici al par. 3.8 “I termini entro cui i documenti informatici e le aggregazioni documentali informatiche devono essere trasferiti in conservazione sono stabiliti in conformità alla normativa vigente e al piano di conservazione”

Indice

PAROLE CHIAVE: archivi / conservazione / documenti / gestione / Linee guida AgID / metadati

Condividi questo contenuto su