Abstract
I nostri tempi denunciano una progressiva crisi dei sistemi democratici in tutto il mondo. Tale condizione incalza gli studiosi ad una rinnovata attenzione alla nascita del modello democratico e alle testimonianze che di esso sono giunte fino ai nostri giorni.[1] Le ricerche si sono focalizzate sulla ricezione da parte della cultura occidentale dell’esperienza democratica antica, nel lungo arco di tempo che va dalle traduzioni duecentesche di Aristotele fino ai giorni nostri. Le ricerche pongono particolare attenzione al sistema democratico ateniese e alle regole che lo caratterizzavano, a partire da Dracone e Solone, per giungere alle riforme di Pericle e Clistene ed alla percezione dei moderni con particolare attenzione ai modi in cui la cultura occidentale ha interpretato e ricostruito l’esperienza democratica antica. Molto più modestamente, il presente contributo si propone di indagare la natura e le caratteristiche del buon cittadino così come sono state declinate da Pericle e, successivamente, da Aristotele. Per lo Stagirita sarà anche necessario distinguere fra l’uomo buono ed il buon cittadino e cioè la possibile convergenza fra i due concetti e, in definitiva, tra etica e politica.
[1] Rino Piovan, Giovanni Giorgini, Brill’s Companion to the Reception of Athenian Democracy from the late middle age to the contemporary Era, ed. Leiden-Boston, Brill, 2021; Ugo Fantasia, Luca Gori (a cura di), La democrazia ateniese in età moderna e contemporanea, Quaderni della Rivista Storica Italiana, ed. Scientifiche Italiane, Napoli 2023.
Le caratteristiche del buon cittadino secondo Pericle
Pericle delinea le caratteristiche del buon cittadino nel suo Epitaffio, detto anche Orazione funebre, da lui pronunciata alla fine del primo anno di guerra del Peloponneso (431-404 a.C.) come parte degli onori ai caduti in guerra.
Come noto, il discorso è riportato da Tucidide nel secondo libro sulla storia della guerra del Peloponneso. La maggior parte degli studi fin qui condotti convengono che l’Epitaffio è molto più di un discorso funebre, in quanto va ben oltre i meriti dei caduti. In particolare, tale fonte elogia la polis ateniese, i suoi cittadini e la sua forma di governo. Quanto ad Aristotele, invece, egli discute dell’aner agathos e del polites spoudaios, nella Politica.[1] Spesso è stata constatata la difficile convergenza fra le due figure.[2]
Necessariamente, dati i limiti imposti dal tema, sarà possibile dar conto sommariamente del processo logico seguito dallo Stagirita per giungere alla definizione del buon cittadino e della difficoltà di far coesistere il concetto di uomo buono con quello di buon cittadino con il fine preciso di verificare se tra la definizione elogiativa di Pericle – spinto da esigenze pratiche – e la definizione fornita da Aristotele vi siano delle consonanze e quali.
Va precisato che Aristotele vive e scrive al confine temporale della Grecia classica e della polis e, altresì, all’alba dell’impero macedone. Pericle, invece, è fra i più alti esempi di governanti dell’epoca d’oro della polis e di Atene in particolare.
Nell’Epitaffio, Pericle chiarisce nella premessa quali siano le sue intenzioni: «mi concentrerò invece sullo stile di vita […] sul regime politico e sui tratti del carattere che ci hanno condotto a questa potenza». Quanto al regime politico afferma «Il nostro regime politico non emula le leggi di altre città, il suo nome è democrazia perché il governo non si basa sull’interesse di pochi, ma sulla maggioranza. Come privati cittadini, siamo tutti uguali dinanzi alla legge. Ma nella vita pubblica, conta il prestigio personale: cariche e onori sono assegnati […] non per il censo, ma per il proprio valore».[3]
E poi descrive più specificatamente le caratteristiche del buon cittadino: «viviamo da uomini liberi non solo per il regime politico, ma nei rapporti quotidiani, dove le abitudini personali possono suscitare reciproche diffidenze: «non ci scandalizziamo se il nostro vicino si comporta come più gli piace, e non lo umiliamo con atteggiamenti che fanno comunque soffrire anche se non infliggono offese materiali. Se nella vita privata siamo tolleranti, nell’ambito pubblico è soprattutto il timore a vietarci di trasgredire alle leggi: obbediamo ai magistrati in carica e alle leggi…e poi alle norme che, pur non essendo scritte, comportano per chi le viola un disonore riconosciuto da tutti».[4]
In sintesi, il buon cittadino per Pericle è, in primo luogo, tollerante e timoroso delle leggi scritte, ma anche delle «norme» e cioè dei precetti morali che, pur non essendo scritti, se violati comportano il disonore. Il buon cittadino è tale se è organicamente inserito e, si potrebbe affermare, funzionalmente utile al tessuto sociale della polis, che è regolata da norme scritte, ma anche da norme di comportamento non scritte e altrettanto cogenti.
Va precisato che nella lingua greca non si trova alcun termine che designi o evochi il concetto di «tolleranza». In effetti, Pericle descrive un atteggiamento che possiamo definire come «tollerante». La tolleranza elogiata non è un’opzione teorica e tantomeno un concetto filosofico, ma piuttosto un ideale di convivenza concreto improntato all’autocontrollo: il controllo dell’ira e del sospetto, l’accettazione dell’altro, il rifiuto di vessazioni sgradevoli, comportamenti che legittimamente possono riassumersi e definirsi nel concetto di tolleranza e cioè sopportazione dell’altro, a prescindere dalle leggi scritte e dalle norme-precetti morali. Un sentimento spontaneo e condiviso di tutti i cittadini.
La definizione di buon cittadino secondo Aristotele
«Noi, al contrario, viviamo in modo rilassato e non di meno siamo capaci di affrontare gli stessi pericoli. Noi siamo dunque pronti ad affrontare ogni pericolo con serenità senza gravosi addestramenti, con un coraggio che non dipende dalle leggi, ma dal nostro carattere. Amiamo il bello, ma senza perseguire lo sfarzo. Amiamo il sapere, ma senza abbandonarci alla mollezza. Usiamo la ricchezza per le opportunità di azione che ci offre, non per vantarci a parole. E da noi non è una vergogna ammettere la propria povertà. È vergognoso piuttosto non darsi da fare per uscirne; una stessa persona può curare i propri interessi e nello stesso tempo occuparsi della cosa pubblica. Per noi, e siamo gli unici a pensarla così, chi si astiene dalla politica non è un cittadino tranquillo, ma un cittadino inutile».[5]
«Siamo in grado di giudicare le proposte politiche, anche se non siamo noi a formularle e pensiamo che il dibattito non pregiudichi l’azione; sarebbe un danno, al contrario, non esaminare e non discutere le cose prima di passare all’azione necessaria.
Bisogna considerare coraggioso chi ha la piena consapevolezza tanto dei rischi quanto dei piaceri che ha dinanzi, e non per questo evita di affrontare i pericoli.
Ci procuriamo amici non ricevendo favori, ma offrendoli.
La nostra città è, nel suo complesso, un modello continuo di educazione per la Grecia. La sola che non offre ai sudditi motivo di rimprovero per il fatto di essere dominati da persone inadeguate. Dovete pensare che la felicità consiste nella libertà. La città che sa premiare il valore ha i cittadini migliori».[6]
Aristotele, nel III libro della Politica, definisce con chiarezza il cittadino come referente dell’attività del politico e del legislatore, in quanto parte attiva nelle decisioni e nel governo della polis, avendo facoltà di accesso a cariche deliberative o giudiziarie.
Per Aristotele, tuttavia, similmente alla definizione di Pericle, poiché ciascun regime selezionerà nel cittadino un tipo di qualità che riflette le caratteristiche del sistema politico, tale cittadino è colui che adotta un comportamento funzionale alla stabilità del regime considerato: una definizione che sembra riecheggiare le parole di Pericle a proposito del cittadino timoroso delle leggi scritte, ma anche osservante delle norme-precetti morali la cui mancata osservanza causa disonore.
Aristotele, tuttavia, forse in polemica con la riforma costituzionale di Clistene che incluse fra i cittadini anche i meteci e gli schiavi, pone la questione su chi sia «giustamente o ingiustamente» cittadino, sottolineando il carattere fittizio dell’uguaglianza sancita attraverso la cittadinanza che nasconde la diversa qualità etica dei singoli. Perciò la comune appartenenza alla polis può essere ristretta dai criteri di esclusione adottati dai diversi regimi o messa in dubbio a causa dell’effettiva idoneità di alcune figure sociali ad essere cittadini.
In altri termini, Aristotele segnala il rischio della divergenza in base alla «virtù» che fa l’uomo buono e il buon cittadino e quello ulteriore, insito nella considerazione che nessuna moltitudine può essere costituita da individui singolarmente eccellenti.
E, tuttavia, si potrebbe ipotizzare che il buon cittadino descritto nella Politica sia molto più simile a quello descritto da Pericle di quanto si possa ricavare da una prima lettura, tanto da dedurne che lo Stagirita lo abbia tenuto bene in vista nella sua teorizzazione e sia, in qualche modo, debitore di Pericle e della sua definizione.
Tutto questo non è riferibile alla sola Politica, ma anche ad altra opera fondamentale: l’Etica Nicomachea. In entrambe le opere, per definire l’uomo virtuoso da un lato e il buon cittadino dall’altro, il Filosofo giunge ad una ricomposizione delle due figure, utilizzando un concetto difficile da comprendere anche semanticamente.
Occorre tuttavia fare una premessa in proposito: nella lingua greca non vi è un termine che definisca l’«equità», distinta dall’eguaglianza, a differenza del latino che definisce la aequitas/aequus distinta dalla aequalitas/aequalis.
Per porre rimedio a questo limite terminologico e per identificare uno spazio proprio alla nozione di equità, Aristotele usa l’aggettivo neutro sostantivato to ison che, tuttavia, ha il significato eminentemente matematico di «uguale» e richiama, ovviamente, la famiglia di termini, politicamente connotati, di «uguaglianza».
Il problema lessicale si pone laddove il Filosofo discute del «giusto» che fa coincidere con il «legittimo» e anche con l’ison che, per l’appunto, non può in tal caso essere tradotto come «eguale», bensì come «equo». È così che si crea un nesso fra la sfera dell’equità e quella della politica. Perché equo è il meson in politica: quel giusto mezzo che è una delle caratteristiche distintive della riflessione di Aristotele.
Nel pensiero aristotelico espresso nella Politica a proposito del buon cittadino, come pure del buon regime politico, il giusto mezzo è la cartina di tornasole per esprimere un giudizio di valore. Tale medietà è caratterizzata dall’equità che non è uguaglianza in senso aritmetico, bensì in senso geometrico. È, in altri termini, l’uguaglianza proporzionale che sta a fondamento della buona Costituzione che, secondo lo Stagirita, oscilla fra i due vertici dell’oligarchia e della democrazia.
Il governo democratico si basa sull’uguaglianza assoluta, ma è ovvio che non tutti i cittadini sono uguali in base alle virtù possedute e, quindi, una ripartizione paritaria dei beni sociali finirebbe per essere ingiusta e, come tale, foriera della stasis. Il rimedio sta nell’individuazione di un criterio di valore o di merito sul quale fondare la giusta proporzione nella distribuzione fra soggetti diversi delle quote di beni sociali, ma anche del correlativo diritto, oltre che di essere governati e di governare.
La scelta del “governo dei cittadini”
Questo criterio porta il Filosofo ad indicare, anche per il governo delle città, il giusto mezzo, rifiutando il governo dei pochi, secondo censo o nobiltà, e di tutti, basato sulla condizione giuridica della cittadinanza, optando così per il governo dei cittadini che egli definisce spoudaioi, seri, efficaci e virtuosi. È a tal proposito che, come tipi emblematici di questi cittadini, egli espressamente cita Pericle e i suoi simili. Non, quindi, l’aristocrazia intellettuale di Platone, ma un’aristocrazia basata sul merito alla quale va l’assegnazione di beni e onori in proporzione al maggior valore individuale generalmente accettato poiché, per l’appunto, essa rappresenta il «giusto mezzo». In tale contesto risulta possibile scorgere l’aderenza con la descrizione che Pericle ci ha lasciato della città e dei cittadini.
Nell’Epitaffio di Pericle potrebbe rintracciarsi la soluzione a questa aporìa, soluzione che si fonda sul presupposto che la comunità dei cittadini, a prescindere dalla virtù posseduta dai singoli, può essere eccellente perché resa tale dalla tolleranza, da tutti posseduta in egual misura, e dal rispetto per le «norme», ossia da quel comune sentimento di appartenenza non condizionato dal timore della giustizia, come nel caso del mancato rispetto delle leggi, bensì condizionato dal consenso per princìpi di civile coesistenza che prescinde dalla virtù di ciascuno.
Pericle sembra fornire una risposta anche all’interrogativo a cui il Filosofo pare non trovare una soluzione convincente: chi appartiene alla polis? Non solo per obbedire, ma anche comandare. Pericle, in effetti, risolve il problema affermando che «nella vita pubblica […] cariche e onori sono assegnati in base alla stima di cui ognuno gode in un determinato campo, non per il censo, ma per il proprio valore».[7]
A prescindere dal fine elogiativo, già rammentato, dell’Epitaffio, sembra che Pericle ribalti la questione: l’uomo virtuoso è tale in quanto riconosciuto come virtuoso dalla comunità dei cittadini della polis e, per queste ragioni, è tale comunità ad erigersi a giudice delle virtù da ciascuno possedute.In altri e conclusivi termini, l’opinione espressa da Pericle esprime una visione della democrazia molto più radicale di quella moderata, se non conservatrice, di Aristotele. La comunità dei cittadini costituente la polis è sancita dal comune sentire intorno ad una qualità che contraddistingue tutti gli appartenenti ad essa e che si esprime nella «tolleranza».
Le cariche e gli onori vengono attribuiti da questa comunità, unico giudice della stima di cui ciascun cittadino gode, quasi come se la comunità sussuma la limitata virtù di cui i singoli cittadini sono portatori.
Per Aristotele la virtù del cittadino è un minus rispetto alla virtù dell’uomo eticamente buono, ma ciò pone il problema dell’opportunità del governo dei molti, non tutti evidentemente dotati dello stesso grado di virtù.
Aristotele non fornisce risposta alla questione dell’eccellenza come presupposto all’accesso al governo della polis, lasciando aperta la possibilità che anche i molti possiedano una virtù spendibile politicamente. Pericle supera la perplessità dello Stagirita, individuando la soluzione nel comune sentire dei molti che, insieme, con la tolleranza praticata nei rapporti sociali ed il rispetto delle leggi non scritte e, quindi, precetti morali intorno ai quali si è formato il comune consenso, possono assicurare che le cariche e gli onori siano assegnati a coloro che la comunità dei cittadini stima per il loro valore.
Conclusioni
A ben vedere, tuttavia, è possibile che Pericle abbia parlato di una democrazia al suo apice e Aristotele di una democrazia al suo tramonto. Il primo, quindi, ne poteva esaltare le qualità, che erano fondate, principalmente, sull’omogeneità del presupposto morale della comune partecipazione alla «virtù politica».
Fra Pericle ed Aristotele si frappone un periodo storico che evidenzia la discrasia fra la isonomia della polis e il kratos che essa esercita nei confronti di coloro che non appartengono alla polis stessa, nei confronti dei quali l’unica legge esercitata è quella del più forte che rapidamente la investe nei suoi rapporti interni. Per Aristotele l’uomo è naturalmente zoon politikon che, in quanto tale, potrà definirsi buono solo se considerato buon cittadino all’interno della polis.
Tuttavia, egli non risolve la dicotomia fra l’uomo buono ed il buon cittadino in quanto testimone della degenerazione della democrazia.
NOTE
[1] Aristotele, Politica, III libro, cap. 4.
[2] Paolo Accattino, L’Anatomia della città nella politica di Aristotele, Torino, Tirrenia Stampatori, 1986; Aristotele, La Politica, a cura di Paolo Accattino, Roma, «L’Erma» di Bretscheneider, Libro III, 2013; Silvia Gastaldi, L’uomo buono e il buon cittadino in Aristotele, «Elenchos», XVI, 2, 253-290; Fulvia de Luise, L’uomo buono e il buon cittadino nel III libro della Politica di Aristotele. Un punto di difficile convergenza tra etica e politica, in Open Edition Journals, 8/2018, Annali VIII.
[3] Tucidide, La Guerra del Peloponneso.
[4] Ivi.
[5] Ivi.
[6] Ivi.
[7] Ivi.
PAROLE CHIAVE: cittadino / cultura / democrazia / etica / politica
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