“La manipolazione consapevole e intelligente delle abitudini e opinioni organizzate delle masse è un elemento importante della società democratica. Chi controlla questo meccanismo celato della società crea un governo invisibile, che è il vero potere decidente nel nostro Paese”[1]. (Edward Bernays, Propaganda, 1928)
Abstract
Nella prospettiva di Edward Bernays, il teorico par excellence della propaganda, le democrazie fabbricano il consenso di cui necessitano attraverso la manipolazione dell’informazione e (sia permesso aggiungere) l’opportuno abbassamento degli standard cognitivi dei destinatari. Senza un racconto orchestrato, pervasivo e affidato a narratori professionali, il potere perderebbe autorevolezza e il suo abuso troverebbe contrasto. Bernays non si limitò alla teoria. Oggi, una parte significativa della manipolazione di massa si sviluppa attraverso piattaforme digitali e motori di ricerca di dimensione particolarmente grande, concentrati in pochissimi centri di potere, quasi interamente collocati al di fuori dell’Unione europea. L’articolo propone una riflessione sugli obiettivi e sull’applicazione del Digital Services Act, il principale strumento a cui l’Unione si affida sul fronte dell’informazione digitale e, in ultima analisi, una riflessione sul concetto di fake news. L’occasione è rappresentata da un evento farsesco e solo apparentemente minore nel contesto delle crude violazioni internazionali oggi in atto, la creazione d’imperio del “Golfo d’America”.
[1] “Conscious and intelligent manipulation of the organised habits and opinions of the masses is an important element of democratic society. Those who manipulate this unseen mechanism of society constitute an invisible government which is the true ruling power of our country”.
Il Digital Services Act, o DSA (regolamento UE 2022/2065) si propone di tutelare gli assetti sociali, economici e democratici degli Stati membri dell’Unione europea da contenuti illeciti promossi nei servizi cd. “intermediari”, tipicamente piattaforme e motori di ricerca. Muove dalla presa d’atto che “la maggior parte dei cittadini dell’Unione utilizza tali servizi quotidianamente” (considerando 1), situazione che ha “dato origine a nuovi rischi e sfide”, incidenti anche su “i loro diritti fondamentali […], in particolare la libertà di espressione e di informazione” (considerando 3).
L’assunto della normativa è che l’innesco di campagne virali dirette ad alterare percezioni e a modificare scelte, ad esempio in occasione di eventi elettorali, sia un effetto collaterale, non voluto, dei modelli di business su cui sono costruiti i servizi intermediari.
Secondo tale approccio, la ragione per cui contenuti emozionali e scadenti beneficiano di immense spinte algoritmiche, mentre testi ragionati e verificati subiscono altrettante retrocessioni, va ravvisata, cioè, solo nel particolare modello di ottimizzazione dei profitti adottato da tali fornitori.
“Le piattaforme online di dimensioni molto grandi e i motori di ricerca online di dimensioni molto grandi possono essere utilizzati in un modo che influenza fortemente […] la definizione del dibattito e dell’opinione pubblica […]. La modalità di progettazione dei loro servizi è generalmente ottimizzata a vantaggio dei loro modelli di business spesso basati sulla pubblicità e può destare preoccupazioni per la società. Sono necessarie una regolamentazione e un’esecuzione efficaci al fine di individuare e attenuare adeguatamente i rischi e i danni sociali ed economici che possono verificarsi” (considerando 79).
Questa regolamentazione, in particolare, è concentrata nel Capo III del DSA e impone ai fornitori dei servizi digitali, specie a quelli dominanti (“VLOPSE”), specifici obblighi di diligenza (due diligence), diretti a introdurre un minimum di regole fondamentali (cfr. per es. art. 14), trasparenza (cfr. per es. art. 17), accountability (cfr. per es. art. 34), verifica (cfr. per es. art. 40). L’atto normativo disciplina, invero, una materia assai più ampia delle fake news, della disinformazione e della misinformazione, tuttavia, ai fini di questo articolo, concentriamoci solo su questi profili.
Assecondare la neolingua del potere
Ancorché la formulazione del Digital Services Act sia sufficientemente astratta e neutra, essa appare costruita su attività di manipolazione informativa riconducibili soprattutto ad agenti non statali, entità private malevole o, al più, da regimi totalitari, ben distanti dall’arco delle alleanze dei paesi europei, come emerge da un esame delle condotte esemplificativamente illustrate nel considerando 12. È da quel versante che ci si attende, per così dire, la “contaminazione dei pozzi”. La definizione di contenuto illegale alla lett. h) dell’art. 2 DSA conferma questa impostazione: è illegale, infatti, il contenuto in contrasto con il “diritto dell’Unione o di qualunque Stato membro conforme con il diritto dell’Unione”. Le informazioni provenienti da attori legittimi e, in particolare, da governi democratici alleati godono di una presunzione di liceità, non insuperabile tuttavia.
Va ora osservato che i “VLOPSE” non hanno ragioni economiche e giuridiche particolari per discostarsi dall’agenda politica dei governi dei Paesi in cui di volta in volta operano.
E così, l’11 febbraio 2025, gli utenti americani di Google constatavano la sparizione dall’applicazione Maps del Golfo del Messico, designato in tal modo da oltre trecento anni, e la sua sostituzione con un’entità geografica fittizia, il “Golfo d’America”, creata d’imperio attraverso un ordine esecutivo dal neo-eletto presidente degli Stati Uniti. Ciò innescava un domino di cedimenti a cascata: compariva ex novo un Golfo d’America anche sulle carte di Apple, Microsoft, ecc. Per uno statunitense, il Golfo del Messico non esiste più sulle principali mappe digitali. Ma ciò si colloca fuori dalla portata del DSA.
La nuova entità geografica è, tuttavia, surrettiziamente comparsa anche nelle versioni di Maps accedute dagli indirizzi IP dell’Unione, sia pure accanto a quella internazionalmente riconosciuta. Può, la comparsa di un’entità geografica fittizia e chiaramente diretta a finalità di propaganda, se non di aggressione territoriale, integrare un “contenuto illegale”? Difficile sostenerlo, al momento, nonostante il concetto di “illegale” vada inteso in senso ampio (cons. 12) e valga non solo “di per sé” ma anche “in relazione a un’attività” (art. 2, lett. h)) illegale. Nella specie, appare verosimile che il cambio di nome sia parte di un più ampio piano di rivendicazione territoriale, come emerge dall’elaborata spiegazione che ha accompagnato l’executive order: “because it’s ours”.
L’allineamento immediato è stato giustificato da Google in questi termini: “Seguiamo da molto tempo la prassi di applicare modifiche dei nomi quando vengono aggiornati nelle fonti ufficiali del Governo”[2].È evidente, tuttavia, che la ridenominazione di nomi geografici appare legittima solo da parte di chi ne ha giuridicamente esclusiva sovranità, come avvenne quando l’“Alto Volta” mutò, sotto il presidente Sankara, il proprio nome in “Burkina Faso”, assai meno da chi la pretende nel contesto di un disegno espansivo.
La neolingua del potere mostra cioè palesi proiezioni ostili, il cui accreditamento presso l’opinione pubblica dipende anche dalla misura in cui i centri di controllo dell’informazione digitale esprimono o non esprimono supina accondiscendenza. La ridenominazione di porzioni del globo verso cui si coltivano interessi sembra essere un precursore cognitivo: con il tempo assuefà, cioè, l’opinione pubblica di riferimento a ridisegnare le proprie geografie mentali, fino a farle coincidere con possibili geografie materiali o, comunque, a rendere queste ultime meno inaccettabili.
Nel Novecento, Edward Bernays, il padre della propaganda moderna, intesa come fabbricazione del consenso, ha operato, unicamente attraverso l’alterazione delle parole e l’utilizzo di strategie di condizionamento dell’opinione pubblica, le più radicali modifiche nei comportamenti sociali, dall’adozione della colazione basata su uova e bacon, fatta percepire come maggiormente salutare rispetto alle alternative più leggere del passato, alla conquista del mondo femminile da parte dei produttori di sigarette, presentate come strumento di emancipazione.
Utilizzando in ambito politico le stesse tecniche di manipolazione applicate in un contesto commerciale, Bernays preparò nell’opinione pubblica le condizioni per il sovvertimento dell’ordine democratico in paesi terzi. È il caso del Guatemala, oggetto di una strategia di fake news, che predisposero al rovesciamento nel 1954 del presidente democraticamente eletto, Jacobo Árbenz e all’instaurazione della dittatura di Castillo Armas. Sulla vicenda, il premio Nobel Vargas Llosa ha pubblicato un romanzo storico che vale la pena leggere, “Tempos recios”, “Tempi duri”.
Non solo è vero che le fake news possono essere notizie di Stato, ma queste sono anzi le manipolazioni più insidiose, perché possono contare su un apparato poderoso di mezzi e su ampia acquiescenza.
Se spariscono le notizie spariscono anche i fatti
A gennaio di quest’anno, Google annunciava l’abbandono dei suoi programmi di inclusione, cosiddetti DEI (diversity, equity and inclusion), non graditi al nuovo corso del potere politico in USA[3], seguendo analoga decisione di Meta[4] e di Amazon[5].
All’inizio di febbraio Google eliminava dal servizio Calendar una serie di celebrazioni: il mese della storia nera (Black History Month), il mese della storia femminile (Women’s History Month) il Pride Month, e altri eventi. L’azione sembra essersi svolta in sordina, è stata la rivista The Verge a portarla alla luce[6]. “Non era sostenibile per il nostro modello”, determinava infatti eccessivo lavoro per il team dedicato che deve inserire manualmente gli eventi[7]: questa la giustificazione fornita dalla società, la cui capitalizzazione di mercato supera il prodotto interno lordo di molti stati nazionali.
La vicenda del Gulf of America, pertanto, sorprende ma non stupisce.
Secondo una recentissima inchiesta giornalistica dell’Observer, Google avrebbe cooperato negli anni con regimi autocratici, come quello russo o cinese o talebano, per assecondare attività di censura[8]. “The technology company has engaged with the administrations of about 150 countries since 2011 that want information scrubbed from their public domains”, riporta il Guardian. Se spariscono le notizie spariscono anche i fatti.
“Compito della stampa è servire i governati, non il Governo”[9], scriveva Hugo Black, compianto giurista, nella sua concurring opinion alla decisione sul caso New York Times Co. v. United States del 1971. Erano gli anni dei “Pentagon Paper”, i documenti che dimostravano oltre due decenni di ingerenze illecite politiche e militari in Vietnam, e la Corte suprema rigettò in quella storica pronuncia i tentativi di impedirne la pubblicazione. “Una stampa litigiosa, una stampa ostinata, una stampa pervasiva deve essere sopportata da coloro che sono al potere per preservare i valori ancora più grandi della libertà di stampa e il diritto del popolo di sapere”[10], aveva scritto giorni prima il giudice M. Gurfein nella decisione della Corte distrettuale del Southern District di New York del 19 luglio 1971, poi confermata dalla Corte suprema.
La stampa libera è un elemento portante di ogni assetto democratico e, come ben noto, trova riconoscimento altresì nelle norme fondamentali dell’ordinamento italiano e unionale, dunque l’aspettativa di una stampa (o quantomeno di una porzione di essa) disallineata dal potere è fondata giuridicamente, ancorché spesso delusa. Non altrettanto ci si può attendere da multinazionali che perseguono legittimi interessi di business nel controllo dei servizi intermediari della società dell’informazione.
Ancora oggi l’agenzia di stampa Associated Press rifiuta l’inchino al potere sul Golfo d’America, decisione per la quale subisce dalla Casa Bianca una restrizione alla propria attività giornalistica[11]. Al momento in cui si scrive, anche il New York Times e il Washington Post tengono ferma la denominazione internazionalmente riconosciuta[12].
Difficilmente, la ridenominazione parziale del bacino oceanico per gli utenti europei in Google Maps del bacino oceanico può essere attratta nell’alveo applicativo del DSA, attesa l’attuale definizione di contenuto illecito e limiti giuridici dell’atto normativo, ancorché il servizio Maps figuri nell’elenco realizzato dalla Commissione delle “piattaforme di dimensioni particolarmente grandi” (VLOP)[13]. Potremmo tuttavia domandarci che cosa accadrebbe se in futuro, in adesione a nuovi ordini esecutivi, cominciassero a sparire dai servizi digitali della società dell’informazione anche i confini legittimi di alcuni stati nazionali. Saremmo ugualmente al di fuori della portata applicativa del DSA?
Conclusioni
In un’epoca dominata da pochi centri di potere privati, con capitalizzazioni superiori al PIL di intere nazioni, che controllano in maniera quasi totale la circolazione e la fruizione dei contenuti nel mondo digitale e oggi anche una porzione significativa del mercato dell’intelligenza artificiale, che riutilizzano la materia prima grezza costituita dalle nostre interazioni con i loro servizi[14] per trasformarla in addestramento dei loro sistemi, di cui non sembra escluso neppure l’impiego militare[15], e che sono in grado di ridisegnare il patrimonio informativo di interi continenti e perfino le mappe geografiche, come ci insegna il caso del Golfo d’America, la reazione giuridica dell’Unione europea è stata insieme corposa e frammentaria, complessivamente purtroppo fuori fuoco.
Si è sviluppata in parte attorno al GDPR, molto solido, in parte attorno al timido e ampiamente deludente AI Act e, soprattutto, è stata affidata al cauto Digital Services Act. Nel DSA la nozione di “contenuto illegale”, che è evidentemente decisiva, si trova affrontata solo per relationem, dunque sostanzialmente non è definita, scelta quasi obbligata giuridicamente e, tuttavia, di estrema debolezza sul piano applicativo. La nozione di “rischio sistemico”, altrettanto decisiva, neppure è presente, ancorché siano indicati i criteri minimi per la sua valutazione. È una soluzione prudente, nel senso etimologico latino, ma che probabilmente smussa i denti alla normativa e ne disperde l’efficacia. Risulta scoperta, o quantomeno non agevolmente sussumibile nell’alveo normativo, una porzione notevole della manipolazione informativa (di cui il caso del Gulf of America costituisce una frazione infinitesimale), quella delle notizie di Stato false o manipolate, eppure, secondo l’insegnamento di Bernays, la modellazione delle informazioni risponde al business model dei governi democratici, e rischia di saldarsi, con esiti allarmanti, al business model delle grandi multinazionali che controllano e, talvolta, cannibalizzano, il settore dei servizi intermediari dell’informazione digitale e che non hanno alcun interesse a disallinearsi dalle agende governative di riferimento o da quelle dei sottostanti gruppi di controllo (gli “uomini di cui non abbiamo mai sentito parlare” – Bernays).
NOTE
[2] “We have a longstanding practice of applying name changes when they have been updated in official government sources”.
[4] P. Dave, V. Elliott, Meta Is Dismantling DEI Programs but Tells Investors It Still Wants ‘Cognitive Diversity’, Wired 30.1.2025
[5] A. McLymore, Amazon cuts reference to diversity from annual report, Reuters 7.2.2025
[6] G. Peters, Google Calendar removed events like Pride and BHM because its holiday list wasn’t ‘sustainable’, The Verge, 8.2.2025
[7] M. Dunbar, Google Calendar removes Black History Month, Pride and other cultural events, The Guardian, 8.2.2025
[8] S. Boyle, Revealed: Google facilitated Russia and China’s censorship requests, The Guardian, 15.2.2025
[9] “The press was to serve the governed, not the governors”.
[10] “A cantankerous press, an obstinate press, a ubiquitous press must be suffered by those in authority to preserve the even greater values of freedom of expression and the right of the people to know”.
[11] D. Bauder, Trump says AP will be curtailed at the White House until it changes its style to Gulf of America, 19.2.2025
[12] Ibidem.
[13] cfr. a questo link.
[14] Si rimanda al saggio di S. Zuboff, Il capitalismo della sorveglianza.
[15] Cfr. M. Biesecker, S. Mednick, G. Burke, As Israel uses US-made AI models in war, concerns arise about tech’s role in who lives and who dies, Associated Press, 18.2.2025
PAROLE CHIAVE: accountability / informazione / manipolazione
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