• Archivista presso Fondazione CMCC, si occupa di processi di governance documentale e della scrittura di articoli di settore. È stata Vice direttrice del progetto DIGEAT.

  • Responsabile Sezione eArchiving

    Archivista, records manager, esperta nella dematerializzazione e semplificazione dei procedimenti nella pubblica amministrazione.

Abstract

L’identità del soggetto produttore s’imprime quasi geneticamente in quella dell’archivio, eppure, nell’epoca digitale, la sostenibilità di questo rapporto risulta sempre più a rischio e l’identità dell’archivio sempre più compromessa. Questo perché l’epoca dei big data e dell’intelligenza artificiale ha allargato i confini di questa impronta fino a renderla spesso effimera, finendo per equiparare la progettazione dei sistemi di gestione documentale alla configurazione di un qualsiasi altro software. La velocità che caratterizza il nostro tempo e le nostre giornate ci porta prima a fare e poi a pensare, ritrovandoci più a rincorrere che a pianificare, arrivando spesso a riconoscere le funzioni principali dell’Ente non a monte, ma a valle.  In realtà la predisposizione di un ambiente documentale dovrebbe tenere in considerazione alcuni elementi concettuali e strumenti professionali che sono tutt’altro che pura speculazione archivistica: in quanti oggi hanno l’accortezza di curare l’aggiornamento periodico di alcuni elementi spesso impostati “di default”, ma che in realtà dovrebbero essere sempre meno “specchi di Narciso” e più “tele di Penelope” da intessere da parte di professionisti del settore? Ripartiamo dunque dalle basi.

Uno dei concetti che più frequentemente ricorre in archivistica è quello di “soggetto produttore” profondamente connaturato a quello di “fondo”, un rapporto che dovrebbe condurre ad un “rispecchiamento” simbiotico e spontaneo, in realtà sempre più critico, soprattutto in ambiente digitale[1].

Le moderne dinamiche che caratterizzano la formazione e la gestione degli archivi nativi digitali (ed ibridi) rendono questo tipo di legame tutt’altro che scontato per i professionisti del settore e diviene ancora più difficile da intuire per coloro che, pur avendo a che fare con le “esigenze e bisogni pratici del lavoro quotidiano”[2], non abbiano mai neppure ricevuto un’infarinatura di cultura archivistica e dunque non si siano mai posti il problema di indagare fino a che punto quell’“avere a che fare” con i documenti, quale mero rapporto corrente e strumentale, possa o meno essere condizionato dalla natura dell’Ente e al contempo incidere sulla corretta formazione dell’archivio.

Eppure, l’individuazione e descrizione di questo legame risulta fondamentale per comprendere il contesto di produzione e strutturare correttamente il complesso documentario, specie quando si ha a che fare con l’allestimento di ambienti digitali che vedono la compresenza di più sistemi interagenti. Se è importante considerare l’identità del soggetto produttore per la mappatura genetica dell’archivio digitale in quanto unicum, è la stessa “digitalizzazione” ad aver reso la percezione di questa impronta genetica quasi effimera, dal momento che la “configurazione” dei sistemi di gestione documentale è spesso appiattita ad un’operazione tecnica pari all’implementazione di un qualsiasi altro software. In realtà, per il suo allestimento si dovrebbero tenere in debita considerazione alcuni elementi concettuali, che sono tutt’altro che pura speculazione archivistica, ma servono a rendere l’archivio, pur se digitale, “proprio” e non solo “apparente”. Ripartiamo, dunque, dalle basi.

 

La distinzione dell’archivio in proprio, improprio e apparente

In archivistica non si fa presto a dire archivio. Esiste una distinzione di base scandita proprio dalla genetica del rapporto che lega il complesso documentale al soggetto produttore e che può dar vita ad un archivio proprio, improprio o apparente.

La distinzione tra queste tipologie si basa sulla natura e sull’origine del vincolo archivistico, laddove l’aggregazione sia il risultato della naturale attività di un soggetto produttore (archivio proprio), oppure siano presenti particolari modalità di formazione (archivio improprio) o si tratti di una collezione/selezione di documenti riunita per scopi specifici (archivio apparente).

Archivio proprio:

  • L’archivio che si forma in maniera naturale e necessaria come risultato dell’attività di un singolo e determinato soggetto produttore (persona fisica, famiglia, ente, organizzazione) nello svolgimento delle proprie funzioni.
  • I documenti presentano un vincolo originario, naturale e sostanziale, che riflette l’interrelazione funzionale e organica dei documenti all’interno del processo operativo del soggetto.

Archivio improprio:

  • L’archivio che si forma come insieme di documenti con caratteristiche omogenee (come la provenienza dallo stesso soggetto o il trovarsi nello stesso luogo di conservazione).
  • I documenti presentano un vincolo originario debole, non immediatamente rintracciabile, o addirittura assente, ma vengono comunque considerati tali in virtù delle loro modalità particolari di formazione e aggregazione che li legano al soggetto produttore. L’archivio proprio e improprio sono spesso complementari per la comprensione completa dell’attività del soggetto produttore.

Archivio apparente:

  • L’archivio si forma sulla base di un vincolo archivistico naturale, ma in realtà i documenti sono riuniti volontariamente per specifici scopi (ad esempio, tematici, collezionistici o di studio) spesso da un soggetto diverso dal produttore originario.
  • I documenti presentano un legame superficiale che deriva da una scelta artificiale e successiva e non dall’origine naturale e necessaria che li lega alle funzioni svolte dal soggetto.

Fatto questo ripasso di alcuni concetti base (rintracciabili nei primi capitoli di qualsiasi Manuale di archivistica), risulta maggiormente intuibile -anche per i non addetti ai lavori- quanto la sostenibilità del rapporto con l’Ente produttore nell’epoca digitale sia sempre più sofisticata e l’identità dell’archivio sempre più sfaccettata. Evitando di sconfinare in una dissertazione di filosofia archivistica, si può comprendere quanti aspetti debbano essere tenuti in considerazione nella configurazione di sistemi di gestione documentale.

Nel mondo dei big data e dell’intelligenza artificiale, potrebbe sembrare quasi anacronistico ritenere applicabili concetti quali quello di vincolo, naturalezza, necessarietà, eppure rendiamoci conto che il nostro patrimonio informativo è irrimediabilmente affidato a intricati puzzle di sistemi sempre più slegati dai soggetti produttori, sempre più sfilacciati e difficilmente interpretabili. Se oggi godiamo del privilegio di poter ricercare e recuperare informazioni da complessi documentari conservati da secoli è anche grazie all’avanzamento degli studi archivistici in ambiti così apparentemente sottili come quelli evidenziati dal presente articolo.

Potranno godere di questo privilegio anche le future generazioni completamente native digitali? Non è possibile lasciare ai posteri l’ardua sentenza: le strutture archivistiche del domani devono essere progettate già dall’oggi, tenendo in debita considerazione concetti e strumenti archivistici, quelli propri di una professione apparentemente “polverosa”, ma che non perde mai il suo autentico smalto.

 

Strumenti archivistici: specchio di Narciso o tela di Penelope?

Veniamo ad uno degli strumenti principali, pensato per custodire e riflettere nel tempo quel “rispecchiamento” genetico tra soggetto produttore e archivio: il Titolario di classificazione[3].

Si tratta di uno strumento non di rado percepito come enigmatico, quasi naif agli occhi dei non specialisti (e per una strana forma di contrappasso, addetti proprio alla sedimentazione documentale). A che potrà mai servire uno schema logico-concettuale strutturato gerarchicamente, che organizza le funzioni di competenza di un determinato ente? Eppure, è subito intuibile la crucialità di uno strumento destinato a fungere da ossatura per la gestione dei documenti, spesso impostato di default in fase di configurazione del sistema.

E qui sta l’errore che può rendere l’Ente schiavo della propria immagine riflessa, come nel caso del mito greco del giovane Narciso, cagionato dall’applicazione cieca di alcuni strumenti previsti di default dai sistemi di gestione e trattati nella loro fissità quali componenti enigmatiche da implementare sommariamente, perciò fini a sé stessi. L’errore potrebbe essere di “riflettersi” in strutture non veramente aderenti alla realtà archivistica di riferimento, rendendo la sostenibilità del rapporto tra archivio ed ente produttore ancora più acquosa e di fatto inefficace se priva della sua traduzione concreta in organizzazione di fascicoli e serie.

Bisogna ricordare che l’esistenza di modelli di Titolario è il risultato di studi sartoriali basato sulla campionatura delle specificità di diverse tipologie di Enti, lavoro prezioso specie laddove la natura del soggetto non rientri in fattispecie propriamente standard. Più che specchio di Narciso nel quale perdersi nella contemplazione della propria immagine riflessa, sarebbe utile ripensare ai Titolari più come tele di Penelope, da cucire e scucire abilmente con una certa periodicità seguendo l’evoluzione dell’Ente, ma soprattutto dell’archivio, di concerto con gli altri strumenti utili a garantire che l’equilibrio del rapporto Ente-attività-memoria sia manutenuto nel tempo.

Il Titolario di classificazione si connota all’interno dell’ente o dell’azienda come un punto di riferimento che va oltre quelle che sono le riorganizzazioni e mantiene nel tempo il più possibile il concetto di stabilità. Pensare a qualcosa di così “monolitico” in un periodo così fluido sembra quasi in contrasto con la tendenza moderna, quando invece è esattamente il contrario. Siamo liberi di seguire gli obiettivi e le mission che sono state preposte ai nostri enti, proprio nel rispetto delle funzioni grazie ad uno strumento che sopravvive nel tempo e nello spazio, ma soprattutto è in grado di evolversi per perseguire le seguenti finalità:

  • organizzare logicamente i documenti;
  • favorire nel tempo il recupero degli stessi;
  • garantire l’uniformità della classificazione;
  • favorire la conservazione digitale e il reperimento a lungo termine delle informazioni.

Il Titolario non esaurisce però la sua esistenza solo con la classificazione, ma questa è il punto di partenza per le attività successive. Il buon andamento è garantito anche dai diversi strumenti ad esso collegati nell’ordito della tela archivistica e che ne decretano la conoscenza e il corretto utilizzo, ad esempio: l’indice alfabetico di classificazione. Se la logica è di procedere dal generale al particolare, nell’indice alfabetico le parti si invertono, andando a colorare di molteplici sfaccettature i procedimenti e le attività esplicitate dall’amministrazione nello svolgimento delle proprie funzioni.

Ancora, il Titolario è completamente connesso con il censimento dei procedimenti, che è da intendersi come il punto di partenza per la sua realizzazione e l’individuazione di titoli, classi e sottoclassi, che sono solo la punta dell’iceberg rispetto alla gestione documentale.

Quindi, nel migliore dei casi può esistere un Titolario di classificazione ufficiale, più o meno aggiornato, al quale ci si attiene nell’utilizzo per i documenti che transitano attraverso il protocollo informatico per le PA. Discorso completamente differente per le aziende che non hanno titolario di classificazione e non sono avvezzi all’utilizzo del sistema di gestione documentale.

 

Il fascicolo: punto d’unione tra astrattezza e specificità

Il punto di unione tra l’astrattezza del Titolario e la specificità dell’azione trattata si individua nell’unità di base dell’archivio, il fascicolo, nelle sue differenti tipologie:

  • Fascicolo per affare – si tratta della forma più eterogena, riferendosi ad attività che non sono state proceduralizzate e non hanno come riferimento norme specifiche, i documenti contenuti al proprio interno non sempre si concludono con un provvedimento finale;
  • Fascicolo per attività – si tratta di un fascicolo che conserva i documenti relativi a una competenza proceduralizzata, per la quale esistono documenti vincolati o attività di aggiornamento procedurale e per la quale non è comunque prevista l’adozione di un provvedimento finale;
  • Fascicolo di persona – in esso sono conservati i documenti relativi a diversi procedimenti amministrativi, distinti per affari o per attività, ma legati da un vincolo archivistico interno, relativo a una persona fisica (o anche giuridica) determinata. La chiusura dipende dalla conclusione del rapporto con l’ente.

Anche in ambiente digitale, il fascicolo si connota come “nucleo minimo” di cui è costituito un archivio. Spesso questo elemento è tutt’ora sconosciuto o, peggio, assimilato a semplici cartelle di rete che contengono frammentariamente documenti relativi a procedimenti, persone e attività, rendendo il rapporto con l’Ente produttore sempre più intricato.

Il fascicolo ha il compito di raccogliere ed organizzare le informazioni che sono proprie delle attività svolte dall’Ente nell’esercizio delle funzioni che lo caratterizzano.  La configurazione del fascicolo con la collezione dei documenti relativi ad uno stesso procedimento, persona o attività al suo interno ne consente il rapido reperimento garantendo la bontà del vincolo che si instaura e che in esso si ripercorre, in contrasto con le cartelle di rete o peggio ancora con la polverizzazione documentale che possono talvolta essere fuorvianti nella ricerca dell’impronta archivistica.

 

E se l’impronta genetica fosse nella comunità di riferimento?

Elemento cruciale, spesso trascurato, è la cura degli addetti ai lavori, in termini di sensibilizzazione, formazione e coinvolgimento, trattandosi di una componente essenziale dell’identità dell’archivio. È proprio l’interazione quotidiana di coloro che hanno a che fare con le “esigenze e bisogni pratici del lavoro quotidiano” alla base della nascita di quel legame che unisce i documenti di un archivio, rendendoli interconnessi in quanto risultato di un processo o di una serie di attività correlate del medesimo soggetto produttore.

La comunità di riferimento è un concetto particolarmente caro alla letteratura nord-americana, soprattutto in ambito di conservazione dei documenti. In questo insieme possono convergere diversi gruppi di individui accomunati da un interesse specifico nei riguardi dell’archivio, quale può essere la necessità di accedere e consultare i documenti conservati.

La sua identificazione è cruciale per l’esistenza di un archivio, in quanto influenza diversi aspetti, in primis l’impronta genetica dello stesso, che si modella nel tempo attraverso le operazioni eseguite proprio per far fronte alle esigenze della comunità, che possono anche in parte coincidere con quelle del soggetto produttore. Senza pretesa di esaustività, basti pensare alle operazioni di:

  • Registrazione, classificazione e fascicolatura: la formazione dell’archivio avviene per mano degli addetti alla gestione dei documenti, che devono poter comprendere la sequenza e la ragion d’essere di operazioni fondamentali, la cui sequenza condiziona sul nascere la genetica dell’archivio;
  • Programmazione della selezione e conservazione: la scelta deve essere ragionata anche in base al valore che i documenti possono assumere per la comunità di riferimento;
  • Definizione delle politiche di accesso e fruizione: anche qui è necessario tener conto delle esigenze della comunità di riferimento;
  • Descrizione e indicizzazione: il patrimonio deve essere descritto in maniera facilmente comprensibile e tale da rendere l’individuazione dei documenti il più rapida possibile.

A parere di chi scrive, è importante considerare che spesso i componenti di maggioranza di questa comunità sono proprio coloro che hanno a che fare con le “esigenze e bisogni pratici del lavoro quotidiano dell’ente” e che di fatto alimentano l’archivio giorno per giorno semplicemente lavorando. Si tratti di dipendenti pubblici o privati, di funzionari o di amministratori è l’elemento umano che conta dietro ai sistemi ed è la logica che guida le azioni quotidiane a dover sempre prevalere sui “ciechi automatismi” per garantire che il rapporto tra archivio ed Ente produttore sia coltivato in maniera sana e il vincolo preservato nel corso del tempo, grazie all’impiego di quelli strumenti tipici della professionalità archivistica che devono guidarne la sedimentazione, ma avendo come punto di partenza (e di approdo) la stessa comunità di riferimento.

Solo la triangolazione tra sistemi, strumenti e comunità di riferimento può essere considerata alla base dell’ecosistema archivistico, chiave della sostenibilità della sua identità (specie in epoca digitale).


NOTE

[1] Sul concetto di rispecchiamento ente/archivio si rinvia alle riflessioni di Claudio Pavone, È poi tanto pacifico che l’archivio rispecchi l’istituto? (1970). Per un approfondimento sul lavoro di Pavone si rimanda ai lavori a Di Marcantonio (2019, 2022, 2023).

[2] Si fa riferimento alle Linee Guida AgID sulla formazione, gestione e conservazione dei documenti informatici, par. 1.11 Principi generali della gestione documentale.

[3] Si consiglia la lettura dell’articolo a firma del Prof. Gianni Penzo Doria, The Filing plan. Legal, Technical, and Practical Issues, JLIS.it : Vol. 16 No. 2 (2025)

PAROLE CHIAVE: archivio / documenti / soggetto produttore / vincolo archivistico

Condividi questo contenuto su

Tutti i contenuti presenti in questa rivista sono riservati. La riproduzione è vietata salvo esplicita richiesta e approvazione da parte dell’editore Digitalaw Srl.
Le foto sono di proprietà di Marcello Moscara e sono coperte dal diritto d’autore.