• Dottore di ricerca in scienze documentarie, opera come archivista informatico presso la Direzione dei sistemi informativi e dell’innovazione del Ministero dell’economia e delle finanze, nel cui contesto si occupa di gestione documentale e conservazione degli archivi digitali, incaricato del ruolo di responsabile vicario per la conservazione. In passato è stato docente a contratto nell’ambito del Master in formazione, gestione e conservazione degli archivi digitali (FGCAD) dell’Università degli studi di Macerata. È stato inoltre relatore in convegni e autore di diverse pubblicazioni sui seguenti temi: documento e archivio informatico, gestione documentale, conservazione digitale, ruolo e natura dei metadati, autenticità documentale.

Abstract

L’imporsi dello scenario digitale ha riacceso l’attenzione sui temi della credibilità del documento, forse perché i nuovi strumenti tecnologici di cui ci serviamo per produrre e usare il documento in chiave performativa sembrano aver rivoluzionato tradizioni vigenti da molto tempo nella nostra società. A prescindere però dalle novità tecnologiche, il tema della fiducia documentale è di per sé complesso: quasi un rompicapo che si richiama al contesto delle convenzioni sociali. Il contributo si sofferma allora sugli aspetti concettuali e fattuali che rendono scivoloso, ambiguo e talvolta incerto, il rapporto tra la dimensione della fiducia e quella del documento.

Il documento, come strumento performativo[1] di cui ci si serve per incidere sui rapporti tra consociati e, in ultima analisi, sulla realtà sociale, risulta di fatto inservibile se non gode della necessaria autorevolezza[2] agli occhi di coloro che sono chiamati a farne uso. Il documento perde dunque ogni efficacia, e pertanto ogni ragion d’essere, qualora non sia in grado di generare un atteggiamento di fiducia, e dunque di affidamento soggettivo, da parte del suo originario emittente e lungo tutta la catena dei suoi successivi utilizzatori. La fiducia è in altri termini un fattore essenziale della dinamica documentale: così nel passato più remoto come nel presente digitale.

Non è un caso che il recente aggiornamento del regolamento europeo eIDAS[3] si preoccupi di introdurre un quadro normativo per i servizi qualificati di archiviazione elettronica, al fine di salvaguardare quella fiducia che sola permette un uso realmente performativo del documento, evitando così che il ricorso alle nuove tecnologie possa in qualche modo eroderla.

A dispetto di questo legame inscindibile tra la dimensione documentale e quella della fiducia soggettiva dei consociati, il rapporto tra le due si presenta sfaccettato e insidioso: quasi un rompicapo, difficile da sciogliere per una serie di ragioni. Una chiara evidenza in tal senso si ritrova forse nella variabilità semantica dei termini che noi oggi comunemente usiamo per connotare la qualità del documento che gode di fiducia: quelli più generali di credibilità, affidabilità, attendibilità e da ultimo immodificabilità[4] e quelli più specifici di autenticità, genuinità, certezza di integrità e provenienza. E tanto gli uni quanto gli altri si aggiungono a quelli che nel passato, in pieno regime d’uso corrente del latino, erano i termini di firmitas – ricorrente in epoca romana – e di fides – attestato soprattutto in epoca medievale – utilizzati anch’essi per esprimere l’autorevolezza del documento.

Certo una grande ricchezza semantica, che però forse nasconde anche la difficoltà a inquadrare con esattezza quella dinamica della fiducia documentale che per noi appare, per certi versi, sfuggente. Tanto è vero che spesso si ricorre oggi all’espressione formata dalla tripletta immodificabilità, integrità e autenticità, quasi una sorta di formula mantrica con cui poter semplificare la complessità: comoda all’uso perché non costringe, chi scrive e chi legge, a decidere se i tre termini siano dei sinonimi o al contrario abbiano significati distinti e però reciprocamente legati – per qualche aspetto che rimane sottotraccia – sulla base di relazioni complementari.

Il rompicapo in verità si origina per la stessa natura del documento, analogico o digitale poco importa. Noi oggi ritroviamo, nel primo articolo del Codice dell’amministrazione digitale[5], una definizione del documento come rappresentazione. Non si tratta di una reale novità: tale definizione fa la sua comparsa già nella norma sul procedimento amministrativo e sul diritto d’accesso[6] e risalendo ancor più a ritroso nel nostro Codice civile[7].

Questa visione del documento è prestata al diritto positivo dalla dottrina giuridica che, con Francesco Carnelutti, identifica l’essenza del documento proprio nella sua natura rappresentativa. Qualificare in questo modo il fenomeno documentale non è naturalmente un mero atto nominalistico. Segnala infatti il noto giurista: «non bisogna confondere la rappresentazione con la somiglianza; l’uno e l’altro concetto hanno comune […] una equivalenza; ma la rappresentazione e non la somiglianza richiede la appartenenza dei due soggetti a diverse categorie […] si direbbe che la somiglianza nella differenza sia il carattere e la difficoltà della rappresentazione»[8]. Ebbene proprio questo binomio di somiglianza e differenza, che circoscrive la natura rappresentativa del documento, fa sì che quest’ultimo si accompagni sempre a un preliminare e incombente interrogativo sulla propria autorevolezza.

Se il documento è infatti somigliante e, ad un tempo, differente rispetto alla porzione di realtà di cui deve essere il surrogato rappresentativo, ogni volta che si è dinnanzi a un evento di produzione e uso documentale si porrà implicitamente un dubbio: il grado di somiglianza raggiunto è sufficiente per gli scopi che con il documento stesso si intende perseguire e, al contempo, il grado di differenza conseguito è stato ridotto al minimo indispensabile, così da scongiurare quella degenerazione che si concretizzata nel falso documentale? Complicata e rischiosa ricerca di un equilibrio tra due dimensioni opposte, ma solo con il suo conseguimento si è legittimati a qualificare lo strumento documentale come degno di affidamento.

Il documento tra senso di fiducia e sfiducia

In questa prospettiva la fiducia si pone come il risultato finale di un percorso tortuoso che in realtà prende avvio, agli antipodi, da una preventiva diffidenza verso l’oggetto documentale. Così noi oggi facciamo certamente un uso massivo del documento, per performare i nostri rapporti all’interno del consesso sociale, ma superando un atavico senso di sfiducia su quello stesso strumento a cui dobbiamo però in qualche modo affidarci, perché esso si è dimostrato nel corso storico incredibilmente potente nel proiettare, nello spazio e nel tempo, il qui ed ora di una certa realtà utile da rappresentare. Verrebbe da dire che la dinamica dei rapporti tra documento e fiducia viva all’insegna del compromesso, come anche evidenziano gli esempi presentati nel contributo di Francesco Del Castillo che compare in questo stesso numero.

Il rompicapo è però difficile da sbrogliare anche per un altro verso. Se consideriamo il termine più tecnico per indicare il documento degno di fiducia, quello di autenticità, non siamo in grado di attribuirgli oggi un significato univoco. Nel presente infatti ci troviamo di fronte ad almeno due accezioni del termine: da un lato l’autenticità come caratteristica del documento che manifesta – in sé e per sé – le evidenze del suo essersi mantenuto inalterato rispetto alla sua originaria emissione e che pertanto può essere considerato genuino, quanto al proprio contenuto e provenienza; dall’altro lato l’autenticità come certezza sulla veridicità del contenuto e della provenienza del documento, certezza sancita con un’azione esterna al documento stesso e prevista dalla sfera giuridica.

Questa distinzione si origina alla fine del ‘600[9], ma ci accompagna ancor oggi, tanto che a seconda degli ambiti disciplinari prevale ora l’una ora l’altra delle due accezioni. Con anche alcuni sorprendenti e problematici momenti d’incontro tra le due: ad esempio quando il Codice dell’amministrazione digitale individua i requisiti con cui il documento informatico fa propria la validità che il diritto attribuisce alla tradizionale forma scritta (art. 20 comma 1-bis) – dunque in un implicito richiamo all’autenticità come autorevolezza del documento sancita dagli strumenti del diritto – ma poi, nel glossario alle Linee guida sulla formazione, gestione e conservazione dei documenti informatici che dello stesso Codice dovrebbero essere una declinazione di maggior dettaglio, si ritrova la definizione di autenticità come autorevolezza del documento sancita dai suoi caratteri di genuinità (integrità e identità). Così anche in testi di grande rilevanza i due significati si possono intrecciare, dando luogo a una commistione di cui siamo probabilmente poco consapevoli. Il distinguo che stiamo analizzando dischiude, ad ogni modo, uno scenario in cui opera un doppio standard d’autorevolezza documentale, basato su “logiche fiduciarie” divergenti: l’autenticità come genuinità è una grandezza discreta – sussiste o non sussiste senza gradi intermedi – che tendenzialmente disincentiva all’uso delle copie e che si focalizza soprattutto sull’integrità documentale; l’autenticità come certezza giuridica è invece una grandezza continua – si manifesta anche con gradi intermedi  – che a certe condizioni incentiva il ricorso alle copie e che si concentra in particolare sulla veridicità documentale.

La differenza però più rilevante è certamente un’altra: la seconda accezione dell’autenticità, richiamandosi più direttamente al nostro atavico scetticismo sulla risorsa documentale, presuppone che il documento non sia un’entità auto-consistente e che per arricchirsi della dose di fiducia che gli è indispensabile per operare performativamente sulla realtà sociale necessiti di un intervento esterno: generalmente quello di un’autorità pubblica che funge da fonte per conferire al documento un’autorevolezza che a quel punto è giuridicamente riconosciuta.

Ogni epoca storica si è preoccupata di tipizzare le modalità con cui le manifestazioni dei poteri pubblici sono usate per autenticare la documentazione. Ancor oggi noi ricorriamo a processi di autenticazione di origine più o meno remota: i registri pubblici, l’istituto del notaio e quello più recente del pubblico ufficiale, l’archivio pubblico anche se quest’ultimo – a differenza dei precedenti – oggi presumibilmente sopravvive nel nostro ordinamento giuridico solo grazie alla consuetudine, che supplisce a un diritto positivo che non può essere mai onnipresente e onnipotente[10].

Una nuova gestione della fiducia?

Come se il rompicapo fin qui descritto non fosse già sufficientemente intricato, i giochi si fanno ancor più aggrovigliati. L’incertezza con cui noi oggi guardiamo alla nozione di autenticità, per l’incapacità di percepire chiaramente le differenze tra le due accezioni del termine, apre più di una breccia al tentativo di risolvere il problema della fiducia documentale ricorrendo ai soli apparati tecnologici. L’utilizzo, ad esempio, degli algoritmi crittografici come se potessero garantire appieno l’autenticità documentale è ragionevole solo a una condizione: quella in cui facciamo coincidere l’autorevolezza del documento con la qualità della sua integrità – o per meglio dire della sua immodificabilità – dimenticandoci al contempo di quel significato per cui l’autenticità è anche la veridicità del mezzo documentale e per meglio dire l’efficacia del suo atto rappresentativo. E proprio in rapporto a questa seconda accezione emergono le criticità più rilevanti.

I meccanismi che fanno appello alle autorità pubbliche, come a fonti autenticanti ritenute imprescindibili, presuppongono una visione dei poteri pubblici al riparo da ogni possibile contestazione. Tuttavia, nel contesto delle società occidentali essi sono sempre più messi in discussione, per la tendenza alla riarticolazione dei rapporti tra cittadini e auctoritas publica secondo uno schema, per quanto possibile, paritario e non più rigorosamente gerarchico. La critica ai poteri pubblici e a ogni loro pretesa di primato si accompagna, inevitabilmente, anche a un indebolimento della loro capacità di fungere da unica fonte (imparziale) di autenticazione documentale.

Non a caso nell’attuale scenario digitale i movimenti che, soprattutto nelle società di cultura anglosassone, sono maggiormente coinvolti nella diffusione della blockchain sono anche quelli che sono animati da chiare istanze libertarie. A partire dalla contestazione dei poteri pubblici, accusati di scarsa trasparenza e di eccessiva invadenza, queste correnti di pensiero vedono nella blockchain, prima ancora che una tecnologia, un modo per rivoluzionare la “geografia della fiducia” anche documentale, nella prospettiva che ci si possa liberare dal tradizionale ruolo di mediazione dei soggetti pubblici e con la nuova società digitale si possa conseguire una gestione community-based della stessa fiducia[11]. È però tutto da dimostrare che il concetto di autenticità documentale, per come è stato storicamente declinato, soprattutto come certezza della veridicità, sia concettualmente compatibile con paradigmi comunitari[12]. Per quanto sofisticati siano gli apparati tecnologici a cui oggi si ricorre, come dimostrano anche gli esempi analizzati nel contributo di Francesco Del Castillo che compare in questo stesso numero, la fiducia documentale si basa – in ultima analisi – su convenzioni consolidate del consesso sociale e queste si avvalgono degli ultimi ritrovati tecnologici semplicemente come mezzi idonei allo scopo. Il che ci obbliga a lasciare in disparte ogni atteggiamento fideistico sulla capacità delle tecnologie di assicurare una credibilità documentale in termini assoluti e non smentibili.

A riprova basti ricordare che la qualità del non ripudio, evidenziata da tante delle nuove tecnologie che si basano sulle tecniche crittografiche, è nei fatti relativizzata dal nostro ordinamento giuridico, che si preoccupa di prevedere precise modalità – tra cui quella processuale della querela di falso – con cui è possibile ripudiare un documento, anche qualora su di esso sia stata riposta la nostra fiducia.

Conclusioni

La fiducia è dunque un aspetto ineliminabile nella dinamica di produzione e uso del documento, ma al contempo essa rappresenta una dimensione mai definitivamente pacificata, neppure nel presente digitale: sia perché essa è il risultato di convenzioni sociali che evolvono e che solo in parte possono essere influenzate dalle innovazioni tecnologiche, sia perché su di essa si sono storicamente sedimentati una serie di significati, rispetto a cui non possiamo procedere con la modalità della tabula rasa. Anche in questo caso, pertanto, come in molti altri del nostro quotidiano, un uso consapevole delle tecnologie esige che esse non si impongano come un fine a sé stante, ma piuttosto si adattino alle esigenze complesse del preesistente contesto sociale.


NOTE

[1] La visione performativa del documento riconosce che esso opera non come un semplice mezzo di conoscenza, per veicolare le informazioni di volta in volta ritenute utili, ma come uno strumento che pragmaticamente mira a modificare la realtà, in particolare i rapporti e le posizioni reciproche dei consociati.

[2] Lo standard ISO 30300:2020, Information and documentation — Records management — Core concepts and vocabulary, non a caso ricorre al concetto di authoritative record, definito come il “record which possesses the characteristics of authenticity, reliability, integrity and useability”.

[3] Regolamento (UE) 2024/1183 del Parlamento europeo e del Consiglio dell’11 aprile 2024 che modifica il regolamento (UE) n. 910/2014 relativo all’istituzione del quadro europeo relativo a un’identità digitale. Inserire qui il rimando all’ebook da scaricare su DIGEAT+

[4] Il termine compare nelle Linee guida sulla formazione, gestione e conservazione dei documenti informatici, approvate dall’Agenzia per l’Italia digitale con determinazioni del direttore generale 9 settembre 2020, n. 407 e 17 maggio 2021, n. 371.

[5] D.Lgs. 7 marzo 2005, n. 82.

[6] L. 7 agosto 1990, n. 241.

[7] R. D. 16 marzo 1942, n. 262.

[8] Francesco Carnelutti, Documento (teoria moderna), in Novissimo digesto italiano, VI, Torino, UTET, 1960, p. 85-89, per la citazione p. 86.

[9] Alessandro Alfier, L’età moderna: frammentazione del concetto di autenticità tra diplomatica delle origini e ius archivi, «Nuovi annali della scuola speciale per archivisti e bibliotecari», 36 (2022), p. 67-88; Randolph Conrad Head, Documents, archives, and proof around 1700, «The Historical Journal», 56 (2013), n. 4, p. 909-930.

[10] Norberto Bobbio, La consuetudine come fatto normativo, Torino, Giappichelli, 2010, p. 95.

[11] Giovanni Michetti, Introduzione alla blockchain. Una guida per archivisti, Napoli, Editoriale Scientifica, 2020.

[12] Alessandro Alfier, Tiempos modernos. El desafío del blockchain a la confianza documental, «Tabula», 25 (2022), p. 61-80.

PAROLE CHIAVE: autenticità / credibilità / documento / fiducia

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