Abstract

Da che se ne ha memoria, l’umanità affida i suoi rapporti sociali ai documenti, rappresentazioni di una porzione di realtà capaci di costituire, regolare o provare rapporti fra i consociati, così come di conservarne traccia e memoria per finalità non solo giuridiche, economiche o storico-scientifiche ma anche personali e affettive. Poter fare affidamento sulla rappresentazione documentale è essenziale. La tecnologia digitale incide necessariamente tanto sui meccanismi di produzione di documenti quanto su quelli per valutarne il livello di affidabilità. L’articolo intende fornire, tramite una parziale rassegna di questi nuovi strumenti, alcuni spunti per orientarsi nel rinnovato modello della fiducia verso il documento, in cui strumenti nuovi tentano di soddisfare esigenze antiche.

Il digitale non è che una delle innovazioni che, nel corso della storia dell’umanità, ha inciso sui rapporti sociali e, conseguentemente, sulla produzione documentaria. Infatti, da sempre, le persone organizzate in società fondano i loro rapporti sui documenti e ci si affidano, vuoi per costituire o regolare quegli stessi rapporti, vuoi per averne prova, vuoi per renderli noti e comunicarli nello spazio e nel tempo, vuoi per mantenerne memoria e traccia, anche personale.

Il digitale è innovazione più veloce e invasiva di altre, oppure forse solo troppo contemporanea per poterla osservare con distacco e pura razionalità. Certamente la facilità con la quale si possono perdere milioni e milioni di bit, che veicolano dati e documenti e, con essi, diritti e doveri e in ultima istanza memorie personali e collettive, inquieta e rischia di alimentare un’ansia che non facilita l’approccio razionale.

Come evidenziato da Alessandro Alfier nel contributo che compare in questo stesso numero, un documento, perché abbia ragione d’essere, deve essere in grado di generare un atteggiamento di fiducia nei soggetti con cui entra in contatto.

L’esigenza di produrre rappresentazioni documentali credibili e significativamente complete e, parallelamente, di valutare tali caratteristiche, è comune a tutte le epoche storiche e oggi si manifesta, con sfumature diverse, in più situazioni: dall’etichetta di un prodotto alimentare alla costituzione della partecipazione azionaria a una società. Cambiano, invece, gli strumenti per soddisfarla.

Qualunque sia la strada che si intraprenda per orientarsi nel rompicapo della fiducia verso il documento, vale la pena affrontare e sottolineare alcune differenze fra il contesto di produzione e circolazione “tradizionale” e quello, ancora in divenire, digitale ed evidenziare quanto e come i “nuovi” strumenti intervengano sui processi con cui i consociati valutano, più o meno consapevolmente, il livello di affidamento da riservare a un documento.

La rassegna che segue può applicarsi non solo ai documenti in senso stretto, rappresentazione formata secondo rituali codificati dalla legge e dalla consuetudine, ma, più in generale, anche a documenti con minori obblighi di forma o, addirittura, all’informazione in senso lato. Infine, non mira a fornire risposte definitive ma solo a indirizzare la riflessione.

La verifica dell’autenticità del documento

Sia che intendiamo l’autenticità documentale come genuinità (integrità e certezza di provenienza), sia che la concepiamo come certezza di veridicità, il problema di come verificarla è da sempre centrale. Se può darsi per implicita quando il documento è osservato nel suo archivio di produzione, altrettanto non può dirsi quando il documento è trasmesso all’esterno. In questo caso, tradizionalmente, la verifica finale avviene con modalità esplicite e chiaramente valutabili nella loro adeguatezza: tramite il confronto con il documento nella sua forma di trasmissione precedente (la minuta) o con le evidenze di altre scritture (registri, imbreviature) o ancora per mezzo di un raffronto con altri esemplari documentali della stessa tipologia e prodotti nel medesimo ambito di emissione della scrittura sotto esame.

Il documento analogico può inoltre recare con sé strumenti di validazione, quali firme, sigilli o punzoni, ma anche caratteristiche fisiche del supporto, quali materiale, filigrane o altri particolari accorgimenti di produzione che consentono di apprezzarne l’autenticità.

Cosa ne è di questi strumenti con il digitale? Da un lato la firma e il sigillo digitale sono immediatamente e oggettivamente verificabili e – questioni di scadenza a parte – sono strumento di validazione rafforzato rispetto ai corrispettivi analogici per i quali, spesso e volentieri, non è immediatamente disponibile l’esemplare con il quale fare il raffronto. Dall’altro lato, sembrano venire meno altri strumenti intrinseci al documento nella forma in cui è trasmesso fuori dal suo ambiente di produzione.

Pensiamo all’esempio del biglietto di un treno, come lo conosciamo adesso e come si presenta in ambiente esclusivamente analogico. Il biglietto analogico è per sua natura non facilmente duplicabile, è ritirato in caso di annullamento e obliterato in caso di uso: queste e altre caratteristiche gli consentono di costituire e riunire in sé il titolo di viaggio e la prova del suo utilizzo. Il biglietto digitale, invece, si riduce a un codice alfanumerico, contemporaneamente comunicato tramite sms ed e-mail e messo a disposizione su app e aree personali di qualche sito. Il codice alfanumerico a sua volta rimanda a una registrazione su una banca dati custodita da chi ha emesso il biglietto. La validità del biglietto può verificarsi solo ricercando nella banca dati il codice, che può anche essere comunicato a voce dal viaggiatore al controllore. Il biglietto “in mano” al viaggiatore altro non è che un promemoria. Lo stesso vale, mutatis mutandis, per le prescrizioni mediche elettroniche.

Si potrebbe sintetizzare che, con il digitale, l’impostazione di fondo subisce talvolta un radicale cambiamento: non si è più in possesso di un documento, ma si ha la possibilità di accedervi presso l’archivio di chi lo ha formato o lo detiene in virtù di qualche convenzione.

Qui il contenuto del documento trasmesso all’esterno è memorizzato in forme eterogenee, diverse a seconda del contesto di produzione. In qualche misura, l’originale del documento resta nell’archivio dove è nato e da questo fuoriescono rappresentazioni diverse, tendenzialmente non autoconsistenti.

La fiducia è una questione di processo

Tende allora a cambiare il paradigma della fiducia: evidentemente, il consesso sociale ripone la sua fiducia nel soggetto che forma e conserva il documento in sistemi informatici che hanno tutti i caratteri dell’insindacabile black box, piuttosto che su meccanismi di validazione e verifica espliciti, visibili e, tutto sommato, valutabili nella loro adeguatezza. Cosa accadrebbe, per esempio, se il controllore del treno sostenesse che il biglietto non è valido o è già stato usato?

L’esempio del biglietto mostra anche come nel contesto digitale, dove la duplicazione immutata è tecnicamente accessibile, vengono meno – o cambiano drasticamente – le conseguenze dell’unicità fisica del documento.

Del documento digitale permane l’unicità essenziale, logica, ma le sue manifestazioni fisiche sono, nella maggior parte dei casi, indefinitamente replicabili in esemplari indistinguibili. In linea teorica, quindi, le conseguenze tradizionali dell’unicità essenziale che coincide con l’unicità fisica, nel mondo digitale, dove l’unicità fisica non è realizzabile, sono da gestire e ricreare con strumenti adeguati.

Prendiamo come ulteriore esempio la fattura. Nella forma analogica questa tipologia documentaria ha, fra norma e prassi, una caratteristica sulla quale si basano alcune attività tipiche dell’universo contabile analogico: è fisicamente unica e le copie sono individuate con specifiche annotazioni. Senza entrare nel dedalo delle regole sulla tenuta dei documenti contabili, chi ha avuto esperienze anche marginali della loro gestione, ha osservato come l’unico esemplare originale della fattura possa arricchirsi nel tempo di annotazioni che ne indicano, per esempio, la registrazione o l’imputazione a un certo finanziamento pubblico. In modo ragionevole e manifesto si evita che uno stesso costo sia rendicontato più volte e si costruisce un sistema degno di fiducia. Diversamente, nel digitale, l’assenza dell’esemplare originale unico, unita alla difficoltà tecnica di fare annotazioni sui documenti, obbliga a trovare soluzioni più tortuose al problema e, di volta in volta, a illustrarne adeguatezza ed efficacia. Verosimilmente, la soluzione sarà una registrazione in una banca dati collegata al documento tramite qualche codice identificativo.

Tornando al biglietto del treno, senza originale unico, possiamo avere certezza che uno stesso biglietto non sia allegato a note spese presentate a soggetti diversi o anche solo che sia stato utilizzato?

Di nuovo, la fiducia in ambiente digitale è sempre più una questione di processo, che non può fare esclusivo affidamento sugli oggetti prodotti e trasmessi ma, anzi, deve fare riferimento in modo sostanziale al sistema di produzione e/o gestione del documento.

La tecnologia e l’autenticità del contenuto

Tornando alla firma digitale, estensione rafforzata della sottoscrizione analogica, è noto come questa, al pari di altri strumenti basati sulla crittografia, consenta non solo di accertare con sicurezza la provenienza di un documento, ma anche di valutare se questo si sia alterato dopo la firma stessa. Verrebbe così da pensare che il digitale sia sufficiente in sé a garantire l’autenticità di un contenuto, tanto più quando interviene in combinazione con un soggetto – il prestatore di servizi fiduciari – a cui i pubblici poteri hanno delegato dei compiti di rilievo.

Ma è davvero così? Alessandro Alfier sottolinea come, nella contemporaneità, nemmeno i pubblici poteri siano al riparo da contestazioni. Emblematico è il caso, che ha avuto risalto nella cronaca frequentata dai fanatici di trasformazione digitale, di firme digitali rilasciate sulla base di deleghe (artefatte) al posto dell’obbligatorio riconoscimento de visu del richiedente[1], a loro volta utilizzate per attivare – nel pieno rispetto delle regole formali – identità digitali poi utilizzate per compiere azioni truffaldine virtuali con conseguenze del tutto concrete, alle spalle di ignari cittadini vittime di un furto di identità.

Ancora più eclatante fu quanto avvenuto con l’EU digital Covid certificate (il “green pass”) che, durante la pandemia da Covid-19, ha probabilmente realizzato la più vasta esperienza di produzione e circolazione di massa di documenti a forte rilevanza giuridica, intrinsecamente dotati di strumenti di validazione (firma digitale), in un sistema complesso e articolato ricco di aspetti tecnologici e giuridici che, in altra sede, meriterebbero maggiore approfondimento. Qui interessa però ricordare come anche la fiducia verso quel sistema ha rischiato di andare in crisi quando hanno iniziato a circolare improbabili certificati intestati a personaggi storici deceduti da tempo o ad eroi della letteratura.

In entrambi i casi, le storture sono riconducibili a comportamenti inadeguati dei soggetti investiti di pubblici poteri o dei loro delegati, ma, quasi a livello emotivo, la falla è percepita come ascrivibile alla tecnologia stessa e rischia di inficiare la fiducia nella cittadinanza digitale, a tutti i livelli.

La tecnologia può rendere più complicato rilasciare una firma digitale senza identificare con certezza il titolare o emettere un certificato che rappresenti informazioni inesistenti o non veritiere (compiere un “falso ideologico”, si direbbe), ma ciò resta tecnicamente possibile se c’è uno sconsiderato intervento umano che nessuna tecnologia sembra poter impedire in senso assoluto.

Anche il cambio di modello di autorità tentato dalla tecnologia – sulla bocca di tutti in tempi relativamente recenti – dei registri distribuiti (la blockchain), dove a un soggetto singolo che esercita pubblici poteri si sostituisce la comunità che si autodocumenta, sembra poter incidere solo sugli aspetti di genuinità documentale intesa come integrità e non alterazione, ma non su quelli di veridicità del contenuto. Al di là di compatibilità del modello blockchain con gli attuali ordini costituiti, è abbastanza evidente come la storia sia costellata di eventi di manipolazione delle comunità.

L’IA e il concetto di provenienza

Un cenno alla moda tecnologica ancor più recente, l’intelligenza artificiale generativa, consente ulteriori riflessioni. L’elaborazione automatizzata di contenuti – di qualsiasi tipo, non necessariamente di natura documentale – basata su conoscenza di contenuti pregressi e interpretazione di un quesito è ormai alla portata di tutti. Questo acuisce la distanza fra autore naturale (o, meglio, artificiale) del contenuto e autore manifesto. Non che fino a oggi l’identità fra creatore e autore apparente fosse indissolubile, tutt’altro, ma le nuove modalità di produzione impongono riflessioni anche sul livello di controllo e consapevolezza che l’autore apparente ha del contenuto che il mondo esterno gli attribuisce.

La questione non riguarda solo documenti formali con valore giuridico diretto, ma investe anche la socialità quotidiana di tutti. Con sempre maggior precisione i social media e i sistemi di messaggistica istantanea suggeriscono risposte “personalizzate” o completamenti di frasi: ne stiamo tenendo conto quando, implicitamente, valutiamo il livello di fiducia che riponiamo su una conversazione e, di riflesso, sul nostro interlocutore? Questo ci impone una revisione del concetto di provenienza?

Da qualsiasi lato si approcci l’argomento, sembrerebbe che qualsiasi meccanismo su cui costruiamo la fiducia, risalendo a ritroso, arrivi, dopo un percorso più o meno lungo, a fondarsi su una convenzione, su un passaggio che il consesso sociale accetta come indiscutibilmente degno di fiducia, quel compromesso che anche Alessandro Alfier evidenzia e al quale gli esempi qui illustrati tentano di dare nitore.

Analogico o digitale, il registro di protocollo di una pubblica amministrazione è “atto pubblico di fede privilegiata” non tanto per motivi tecnici o tecnologici legati alla sua tenuta (che pure esistono), ma per un meccanismo di fictio normativa: si conviene di dare assoluta fiducia a chi forma e detiene il registro, ma non c’è garanzia oggettiva della assoluta veridicità di questo. Esiste infatti la possibilità (onerosa) di contestare l’atto pubblico e, parimenti, sono previste punizioni aggravate per il pubblico ufficiale che produce falsità.

Del resto, il principio secondo il quale “è degno di fiducia il documento a cui si è disposti a riconoscerla”, oltre alla sicura valenza tautologica, trova riscontro anche nell’ ordinamento giuridico. Per il Codice civile, le prove documentarie (copie incluse) sono valide fin tanto che la parte contro cui sono prodotte non le contesta. Per la giurisprudenza, anche una notifica a valore legale claudicante, eseguita senza il rispetto delle forme prescritte, può ritenersi efficace se raggiunge lo scopo, magari quando il suo destinatario dà prova di aver avuto notizia di quanto notificato, anche solo perché – infilandosi in un sottile paradosso – tenta di contestare qualche vizio della notificazione stessa…

In conclusione, è destinato al fallimento qualsiasi tentativo di definire processi digitali in grado di attribuire un valore oggettivo, assoluto e indiscutibile ai documenti che producono, così da sgombrare il campo dalla questione della fiducia?

Le riflessioni fin qui condivise suggeriscono senz’altro che un affidamento incondizionato ai prodigi della tecnologia digitale rischia di rivelarsi ingenuo e indicatore di scarsa consapevolezza dei processi digitali. Lo ripetiamo, i processi digitali amano rinchiudersi in “scatole” spesso accessibili solo a chi li controlla e che non necessariamente sa darne conto fino in fondo.


NOTE

[1] Si fa riferimento a un’inchiesta di Report riportata poi anche da altri organi di informazione. Il servizio punta il dito contro l’inaffidabilità dell’identità digitale SPID, ma a ben vedere l’anello debole è proprio la faciloneria con cui alcuni soggetti rilasciano le firme digitali. In quel caso, le firme rilasciate abusivamente hanno consentito di attivare identità SPID usate poi per attivare e/o prosciugare il “Bonus cultura” di inconsapevoli studenti, per di più con la complicità di sedicenti venditori che fatturano beni mai venduti… Insomma, una truffa in piena regola in salsa digitale.

PAROLE CHIAVE: autenticità / documento / fiducia / firma digitale

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