Abstract
L’articolo propone una riflessione sull’uso dell’intelligenza artificiale nel contesto dell’amministrazione pubblica. Uno specchio dei problemi di metodo posti dal ricorso a questa nuova tecnologia è rappresentato dalla gestione documentale: si tratta infatti di un ambito in cui le organizzazioni pubbliche iniziano a ricorrere a soluzioni di artificial intelligence, con un entusiasmo che in controluce segnala vecchie e nuove criticità. L’articolo sottolinea allora i limiti di un approccio che sembra voler sostituire in toto l’intervento umano – o “l’intelligenza artigianale” – mediante l’intelligenza artificiale, con la conseguenza però di consegnare a quest’ultima una base di conoscenza non sufficientemente strutturata e in ultima analisi di depotenziare i benefici attesi dall’uso di questa nuova tecnologia per il campo della gestione documentale.
La complessità, la semplicità, la semplificazione
Italo Calvino, in un’intervista rilasciata nel 1981 per la serie Vent’anni al duemila, trasmessa da Rai 3, suggeriva un’impegnativa direzione di marcia: «puntare solo sulle cose difficili, eseguite alla perfezione, le cose che richiedono sforzo; diffidare della faciloneria, del fare tanto per fare». Un invito che scaturiva da una convinzione: quella secondo cui dalla complessità non si doveva affatto rifuggire, tanto più che essa non andava contrapposta alla semplicità, essendo quest’ultima – né più né meno – che una forma per esplorare e comprendere la complessità stessa.
Quell’invito risuona oggi con ancor più forza. La tecnologia, infatti, in particolare il suo ultimo ritrovato dell’intelligenza artificiale generativa, sembra aver reso agevole e comodo tutto ciò che ricade nelle nostre esistenze: quasi che fossimo – finalmente – esentati dal doverci confrontare con la complessità e, al contempo, potessimo fiduciosamente immergerci in una dimensione semplificata del vivere.
I casi di complessità storicamente irrisolti sono probabilmente innumerevoli. Uno tra essi emerge però con forza, anche per l’impatto che ha sulla vita della comunità nazionale: la riforma della nostra amministrazione pubblica. Un rinnovamento o una rivoluzione tanto invano attesi che già il giurista Mario Nigro li definiva come «una sorta di topos»[1]: ricorrenti, senza sosta, nella storia contemporanea del nostro paese. Un’urgenza segnalata già a partire dal primo Novecento[2] e dai governi di qualsiasi credo politico, rimasta però senza soluzione, tanto da indurre lo storico Guido Melis a definire il riformismo amministrativo italiano come «una storia di vinti»[3].
Questa natura apparentemente irriformabile del settore pubblico spinge alcuni a considerarla un male quasi endemico del paese[4]. Così, sempre più spesso, le compagini governative sembrano volere combattere le criticità persistenti nell’apparato pubblico non con riforme puntuali, coerenti e prolungate nel tempo, ma assestando fulminei ed estemporanei “scossoni muscolari” al corpo di quell’amministrazione pubblica: questa allora risponde con la propria capacità di resilienza, ma senza che in tutto ciò si mettano in moto delle autentiche leve d’innovazione.
Una riprova di come un’azione apparentemente energica e senza le opportune declinazioni non sia, di per sé, la soluzione ideale, si ritrova se guardiamo alle vicende della trasformazione digitale. Questa – a dispetto delle tante attese – non ha in realtà agito come un volano per migliorare la qualità d’azione del nostro settore pubblico[5]. A quest’esito deludente può aver contributo la scarsità di investimenti, suggellata da quella clausola di invarianza finanziaria inclusa in molte delle norme che si ripromettevano di modernizzare l’amministrazione pubblica. Le ragioni credo che però vadano cercate anche altrove. La sperata rivoluzione digitale è stata declinata in gran parte con norme generali: calata dunque rigidamente dall’alto, senza analizzare il merito – mi verrebbe da dire la complessità – di come “innestare”, sinergicamente, le nuove tecnologiche nel tessuto preesistente dell’amministrazione pubblica e nel caso riformarlo. È significativo, a questo proposito, che il Consiglio nazionale dell’economia e del lavoro, nella sua ultima relazione annuale sui servizi pubblici, richiami questa complessità di scenario, segnalando la necessità di una strategia integrata: quella tra interventi di digitalizzazione, sviluppo del capitale umano e innovazione organizzativa, fattori diversi che però solo se affrontati contestualmente possono davvero generare una buona amministrazione[6]. Chissà se il Piano di ripresa e resilienza dell’Italia, che è il più cospicuo dell’Unione europea e che per almeno un quarto del suo importo è destinato alla transizione digitale, saprà indirizzare sul settore pubblico delle logiche d’azione diverse da quelle del recente passato. Logiche con cui affrontare, parafrasando Calvino, la complessità di dimensioni del riformismo amministrativo e tradurla in semplicità – dunque in qualità – rifuggendo così da quella semplificazione della reductio ad unum rappresentata dal ricorso al mero “consumo di tecnologia”.
L’amministrazione pubblica appare allora come un contesto: mi riferisco qui all’etimologia latina del termine, che rimanda alla trama e all’intreccio, in una chiara metafora della complessità. Un tessuto di leggi, regolamenti, procedimenti, gerarchie, organi e articolazioni, competenze e prassi, rispetto a cui è sempre in agguato l’impulso semplificatorio a recidere, quanto più in profondità sia possibile.
Come anche dimostra una recente notizia diffusa dalla stampa, attribuita all’amministratore delegato della filiale italiana di una multinazionale hi-tech, Vincenzo Esposito e così intitolata: «Microsoft investirà 4,5 miliardi in Italia. Con l’AI taglieremo la burocrazia nella PA»[7]. Ammesso che il titolo traduca correttamente il pensiero dell’intervistato, non sono così convinto che la vera soluzione stia nell’usare l’artificial intelligence come un arnese per recidere, con “forza muscolare”, l’intreccio amministrativo[8]. Così ci si espone probabilmente al rischio di fare dell’intelligenza artificiale generativa una “cattedrale nel deserto”, vanificandone le grandi potenzialità: imponente, ma attorniata da un contesto sfilacciato e inadeguato che, alla fine dei giochi, la rende impotente. Insomma, una soluzione che minaccia di essere non semplice, ma semplificata, rispetto a quella complessità che andrebbe invece affrontata per innovare il settore pubblico. Da dove nascono questi miei timori?
La complessità della burocrazia tra fardelli e garanzie
Il Rapporto sulle condizioni delle pubbliche amministrazioni è certo un documento datato quanto al momento della sua redazione. Fu infatti predisposto nel 1993 per volere di Sabino Cassese, allora ministro della funzione pubblica[9]. Il rapporto però non è affatto superato per quanto riguarda una parte dei suoi contenuti. Nell’introduzione Cassese stila un decalogo che dovrebbe guidare il complesso processo di riforma del settore pubblico:
Primo: gli uffici pubblici debbono rispondere alla domanda di servizi collettivi […] Anche per i servizi collettivi il “consumatore” è sovrano. […] Quarto: se le leggi o le amministrazioni pubbliche costruiscono procedure labirintiche e vi si smarriscono, perdendo di vista i risultati, il prodotto delle amministrazioni si risolve in un costo […] per la collettività. La rigidità degli apparati e il viluppo delle procedure conducono alla sclerosi dei servizi […] Quinto: se gli uffici pubblici non riescono a misurare il loro rendimento, il rispetto della legge diventa un rito formalistico, che perde di vista il fine ultimo della loro attività. Sesto: un’amministrazione incapace di aggiornare la propria organizzazione, sensibile alle “voci di dentro” […] più che alle esigenze sociali […] rappresenta un impedimento allo sviluppo economico e sociale. Settimo: leggi superflue producono la necessità di altre leggi e l’iperregolazione trasforma l’azione amministrativa in mera esecuzione, paradossalmente trasformando la necessaria discrezionalità amministrativa in arbitraria descrizione […]. Decimo: se la voce dei fruitori dei servizi […] non si fa sentire, prevarranno gli interessi dei fornitori o quelli dei “clienti”[10].
A dispetto del tanto (troppo) tempo trascorso, mi sembra che quell’analisi sul contesto d’origine della nostra cattiva burocrazia sia ancora valida.
E mi chiedo allora come, su uno scenario così intrecciato di criticità, possa agire l’intelligenza artificiale generativa e con quali risultati concreti. Soprattutto nella sventurata ipotesi che essa non sia accompagnata da una strategia integrata di innovazioni strutturali – organizzative e funzionali – davvero profonde. E questo per la nostra mancanza di determinazione nel riconosce che l’artificial intelligence non è “la soluzione”, potente risorsa disruptive con cui fare tabula rasa del contesto amministrativo dell’oggi, ma uno strumento da integrare con altri, elaborati con la fatica di quella che Andrea Lisi chiama “l’intelligenza artigianale”, così da costruire una soluzione semplice e dunque di qualità a un problema complesso e degenerato nel tempo.
I rischi che emergono per un uso “muscolare” dell’intelligenza artificiale generativa mi sembrano concreti anche tenendo conto di un aspetto della questione che non può essere semplificato. Le autorità pubbliche devono rendere conto, in una prospettiva di garanzia, dei percorsi di formazione delle loro volontà, operando attraverso la cosiddetta “procedimentalizzazione”. L’agire per procedimenti amministrativi apre infatti degli spazi con cui attribuire dei poteri di partecipazione e contraddittorio ai soggetti variamente coinvolti nelle decisioni assunte dai poteri pubblici ed assegnare loro degli strumenti per il controllo sull’attività dell’amministrazione e sul rispetto delle norme che limitano l’operato della sfera pubblica. Tale modo di operare, così diverso da quanto avviene per l’attività dei privati, fa sì che all’interno della dimensione burocratica – a cui per lo più attribuiamo un significato deleterio – vi sia anche un nucleo importante e non sopprimibile per una società a democrazia avanzata. L’agire per fasi, per approfondimenti e verifiche progressive e magari con il concorso di diverse amministrazioni, il tutto tracciato documentalmente, permette infatti di esercitare un controllo sulla sfera pubblica che, di per sé, ha una natura potenzialmente invasiva e di contemperare gli interessi pubblici con quelli dei singoli. Se l’obiettivo è dunque quello di «tagliare la burocrazia», non si potrà semplificare la questione: ci si dovrà invece confrontare con la sua complessità, individuando ancora una volta una soluzione semplice e dunque di qualità, che permetta di distinguere da un lato gli aspetti contingenti e deleteri da eliminare e dall’altro gli aspetti di fondo, irrinunciabili e dunque da salvaguardare.
La complessità della gestione documentale, tra intelligenza artigianale e intelligenza artificiale
Nel contesto del settore pubblico, l’ambito della gestione documentale è tra quelli in cui più spesso si ritrovano applicazioni di intelligenza artificiale generativa. Di recente le softwarehouse hanno infatti integrato, nelle loro soluzioni di gestione documentale, l’artificial intelligence declinata in diverse forme: interfacce conversazionali, assistenti virtuali, ricerca assistita, classificazione automatica di documenti ed e-mail, estrazioni di dati da documenti non strutturati, metadatazione automatica, tanto per citarne alcune.
Questo sodalizio temo nasconda una precisa immagine: quella secondo cui una tecnologia pur non ancora matura, ma che simula il comportamento cognitivo umano, possa risultare già oggi efficace se applicata ad attività fortemente routinarie e la cui esecuzione sembrerebbe dettata più da obblighi normativi che non da un’utilità strategica.
Purtroppo, la nostra “intelligenza artigianale” nel tempo male ha lavorato su questo fronte, contribuendo ad avvalorare quell’immagine stinta della gestione documentale. Il modello italiano probabilmente sconta un vizio d’origine: la scarsa attenzione per l’integrazione della gestione documentale in senso stretto con la gestione dei procedimenti amministrativi, così da rendere nel tempo poco strategica quell’attività per organizzazioni tanto complesse quali sono le amministrazioni pubbliche. Forse con un’unica eccezione a quel modello: il Testo unico sulla documentazione amministrativa[11], che prevede un sistema di gestione dei flussi documentali – leggi gestione dei procedimenti amministrativi – distinto, ma integrato nel sistema di gestione informatica dei documenti. Quell’indicazione avrebbe però avuto necessità di essere ripresa e sviluppata, cosa che non è avvenuta a proposito di sfide alla complessità non affrontate. Nel tempo poi a quella carenza originaria se ne sono aggiunte altre: il “protocollo-centrismo” del nostro paradigma di gestione documentale e, con l’avvento dello scenario digitale, la disarticolazione di fatto tra le funzioni di classificazione e le funzioni di fascicolazione.
Così nel nostro paese la gestione documentale è andata perdendo di valore strategico. Infine, a fare da sfondo a tutto questo, quella che potremmo chiamare “la corsa al tavolo del legislatore”: da noi la regolamentazione della gestione documentale nel settore pubblico è stata delegata quasi interamente alle norme di legge, che per loro natura sono uno strumento rigido e mai esaustivo, tralasciando lo sviluppo di una normazione invece volontaria – standard ISO, buone pratiche e linee guida di comunità – che si sarebbe dimostrata più flessibile ed esaustiva e che avrebbero stimolato una più fattiva cooperazione tra diverse comunità professionali. Tale “impostazione dall’alto” ha reso il contesto della gestione documentale soggetto più al capriccio linguistico del legislatore che non alle competenze di tecnici, senza che al contempo si diffondesse una capillare cultura della gestione documentale al passo coi tempi. Inevitabile allora che questo settore si apra, con grandi speranze, all’innovazione dell’artificial intelligence.
Rispetto a queste prospettive, credo vada avanzato un dubbio di metodo: ancora una volta, infatti, mi sembra vi sia il tentativo di rifuggire dalla complessità, recidendo i contesti. L’intelligenza artificiale generativa ha bisogno di una base di conoscenza su cui esercitare, per tentativi ed errori, dei processi di apprendimento. Una knowledge base di partenza davvero adeguata è, dunque, una condizione essenziale per permettere all’artificial intelligence di dispiegare la sua massima “potenza di fuoco”.
Che cosa però garantisce una base di conoscenza realmente idonea alle soluzioni di intelligenza artificiale generativa da applicare al dominio della gestione documentale?[12] Credo che, al fondo, sia questo l’interrogativo da porsi. Forse la risposta emerge dal riconoscimento che l’archivio – ancor più se digitale – è nella sua sostanza informazione contestuale: contenuti documentali agganciati a contesti che, a loro volta, rimandano ad altri contesti. Una knowledge base adeguata ai casi d’uso che stiamo analizzando è dunque quella che si presenta con un’elevata strutturazione, tale da includere tutti i contesti necessari e sufficienti, opportunamente esplicitati e formalizzati. Certo l’intelligenza artificiale generativa potrà avvalersi di strumenti sempre più accurati per la comprensione dei contenuti documentali, ma il risultato conseguito sarà sempre inferiore a quanto potenzialmente promesso, se la base di conoscenza utilizzata non saprà ricomprendere anche quei contesti che veicolano significati di prima grandezza sugli stessi contenuti documentali: contesti di classificazione appropriati, integrati a contesti di fascicolazione pertinenti, completati da contesti esaustivi che tracciano i procedimenti amministrativi e i piani di conservazione. In fondo una gestione documentale di qualità è quella che fa leva sull’integrazione sistemica di contesti adeguati, riportandola a risultati di semplicità, dunque ai bisogni di efficienza ed efficacia delle organizzazioni: questa è, con tutta probabilità. la base di conoscenza più feconda per le soluzioni di artificial intelligence.
Temo allora che la rincorsa all’intelligenza artificiale generativa non sarà il comodo escamotage per sottrarci alla fatica del confrontarci con la nostra “intelligenza artigianale” sulle disfunzioni del nostro paradigma di gestione documentale. E pertanto, ancora una volta, saremo chiamati su invito di Calvino a «puntare solo sulle cose difficili, eseguite alla perfezione, le cose che richiedono sforzo».
NOTE
* I siti web citati sono stati consultati in data 30 ottobre 2024.
[1] Mario Nigro, Il nodo della partecipazione, in Id., Scritti giuridici, Giuffré, Milano, 1996, p. 2002.
[2] Sabino Cassese, Giolittismo e burocrazia nella “cultura” delle riviste, Torino, Einaudi, 1981.
[3] Relazione tenuta da Guido Melis il 24 ottobre 2011 nell’aula magna dell’Università degli studi di Torino, nell’ambito del convegno L’Italia dal 1861 a oggi.
[4] Secondo l’European Quality of Government Index 2021 predisposto dalla Commissione europea il nostro paese, quanto a qualità dell’azione dell’amministrazione pubblica, si colloca a livello continentale nelle ultime posizioni: 22esimo posto su 27 paesi censiti, tra l’altro senza alcun miglioramento rispetto alla precedente rilevazione, risalente al 2017. Riferimento qui.
[5] Tanto è vero che l’E-Government Survey 2024. Accelerating Digital Transformation for Sustainable Development delle Nazioni Unite colloca l’Italia al 51esimo posto nel ranking mondiale dell’E-Government Development Index, dato quest’ultimo addirittura in leggera discesa, in termini assoluti, rispetto a quello segnalato nella precedente rilevazione del 2022. Riferimento qui.
[6] Consiglio nazionale dell’economia e del lavoro, Relazione annuale al parlamento e al governo sui livelli e la qualità dei servizi erogati dalle pubbliche amministrazioni centrali e locali alle imprese e ai cittadini, 14 ottobre 2024, p. 23 (<https://www.cnel.it/Documenti/Relazioni>).
[7] Dal quotidiano Il Secolo XIX del 3 ottobre 2024.
[8] L’entusiasmo per l’impiego dell’artificial intelligence si accompagna spesso a un’idea sulla sua natura dirompente rispetto agli scenari esistenti. Non a caso molti commentatori tendono ad applicare all’intelligenza artificiale generativa la teoria dello studioso Clayton M. Christensen sulle disruptive technologies. Per una rassegna degli articoli più significativi di questo autore si rinvia alla raccolta The Essential Clayton Christensen Articles, pubblicata sul sito della Harvard Business Review.
[9] Presidenza del consiglio dei ministri – Dipartimento per la funzione pubblica, Rapporto sulle condizioni delle pubbliche amministrazioni, Roma, Istituto poligrafico e Zecca dello stato, 1993. Riferimento qui.
[10] Ivi, pp. 9-10.
[11] DPR 28 dicembre 2000, n. 445.
[12] L’archivistica ha già iniziato ad interrogarsi in proposito. Si veda al riguardo Giovanni Colavizza, Tobias Blanke, Charles Jeurgens, Julia Noordegraaf, Archives and AI: An Overview of Current Debates and Future Perspectives, «Journal on Computing and Cultural Heritage», 15 (2021), n 1, pp. 1-15. Riferimento qui.
PAROLE CHIAVE: amministrazione pubblica / gestione documentale / IA / intelligenza artificiale generativa / trasformazione digitale
Tutti i contenuti presenti in questa rivista sono riservati. La riproduzione è vietata salvo esplicita richiesta e approvazione da parte dell’editore Digitalaw Srl.
Le foto sono di proprietà di Marcello Moscara e sono coperte dal diritto d’autore.