• Avvocato del Foro di Bari, Responsabile per la Transizione al Digitale presso l'Ordine degli Avvocati di Bari comincia la pratica nel settore civilistico e del diritto del lavoro per accostarsi ai temi del diritto dell'informatica e delle nuove tecnologie, nonché all'adozione del digitale negli studi professionali, promuovendo un uso consapevole delle ICT viste come inevitabile strumento tecnico da accettare demistificandole.

Abstract

“Cheaters never prosper”, recita un proverbio registrato nell’Oxford Dictionary sin dal XIX secolo. “Gli imbroglioni non vincono mai”. Eppure non hanno mai smesso di provarci: il primo gioco della storia ha creato le prime regole, norme e leggi, e le prime regole hanno creato il primo baro, il “cheater” pronto a sfidare non solo il gioco ma le sue regole. Con l’arrivo dei videogiochi il cheater ha potuto vivere una breve stagione di impunità, diverse forme di complicità e il nuovo tentativo di imporre etica e legge ad un mondo dove il gioco diventa eSport, disciplina sportiva e il cheater torna baro e trasgressore. Ma quale prosperità cerca il moderno cheater? La semplice vittoria in un gioco online? O la posta finale è la libertà di manipolare computer, console di gioco e programmi che ritiene di aver legittimamente acquistato, combattendo una battaglia in cui la protezione del diritto d’autore, l’equità competitiva e la tutela delle proprietà intellettuali fa da contraltare al diritto ad esplorare, usare, conoscere e riaffermare proprietà e signoria su qualcosa di cui il moderno pirata si sente spossessato?

Introduzione

La storia del primo cheater, o baro che dir si voglia, comincia col primo gioco: dadi truccati sono già apparsi nell’orizzonte dell’antichità grecoromana, con esemplari appesantiti trovati tra le rovine di Pompei e nelle regioni occupate di Gallia e Germania e, assieme alle Olimpiadi, ricordiamo gli Zanes, “contro statue votive” con istoriati i nomi di bari banditi per sempre dai Giochi Olimpici stessi.

Sono sempre esistiti i giochi, sono sempre esistiti i bari, e da quando esistono i giochi il baro ha combattuto una dura corsa alle armi, ulteriormente complicata dall’ingresso in scena del videogame e degli eSports.

L’etica dei primi cheat, tra normalità e connivenza

Non vi è stupore quindi nello scoprire che i primi cheat, i trucchi per barare online (e non solo) coi videogames nascono coi primi videogiochi.

Il primo cheat noto nella storia videoludica nasce già con Colossal Cave Adventure, del 1976, e con il codice “XYZZY” nato come alternativa al vagare per una riproduzione virtuale della Mammuth Cave in Kentucky, esplorata in lungo e in largo dalla celebre speleologa Patricia Crowther (moglie del programmatore Will Crowther).

Il cheat, non a caso una “parola magica”, era un mezzo per testare agevolmente le funzioni del gioco. E così fu per molti anni: Manic Miner del 1983 aveva un suo “God Mode”, l’immortalità incorporata.

In tutti gli altri casi il cheat code diventava l’equivalente del test Kobayashi Maru, test impossibile descritto nel film Star Trek II – L’Ira di Khan del 1982 la cui risposta da parte del (non troppo) eroico protagonista Capitano James Tiberius Kirk fu proprio di barare: il cheat code veniva introdotto dai giocatori più abili e “smanettoni” per avere facilitazioni nel gioco e dai primi pirati informatici, in competizione tra loro, per invogliare gli utenti a prediligere la loro release.

Il diritto in questo caso non solo taceva, si dichiarava orgogliosamente indifferente: secondo Pretura di Torino, 12 maggio 1982 i videogames erano solo “aggeggi nati per sollevare dalla noia gente sfaccendata”.

Il diritto non sarebbe intervenuto riconoscendo sufficiente tutela al videogame per fermare i bari e i pirati, e i bari difficilmente si sarebbero ritenuti tali.

Anzi, in assenza di sanzione, i cheater si sentivano eticamente e moralmente in posizione di superiorità: tool dal chiaro intento di introdurre cheat, come The Great Escape Utility di Moxie per Castle Wolfestein (1981, MUSE) venivano descritti sin dal materiale promozionale come Mezzi per migliorare il gioco.

Senza il cheat l’esperienza videoludica sarebbe stata identica sia in Sala Giochi che a casa: il gioco era concepito per accrescere in difficoltà nel progredire della partita stimolandoti a inserire gettone su gettone o ricominciare il gioco da principio, con la frustrazione mezzo della macchina per ottenere prestazione economica dall’umano.

Persino riviste ufficiali come Nintendo Power (1988-2012) erano note per la pubblicazione di “trucchi e cheat”, dal “Konami Code” nelle sezioni “Top Secret” e la carriera del colosso dell’Intrattenimento Videoludico Pokémon nacque dalla fanzine autoprodotta Game Freak (Giappone, 1981) dove ogni easter egg e cheat di ogni gioco in voga negli anni veniva censito e reperito.

L’ecosistema N: Galoob vs Nintendo

Si passò dunque da un mondo di indifferenza ad un mondo di connivenza: il giocatore onesto e il cheater coesistono, ma presto non più pacificamente.

Ditte come Galoob (Game Genie) e Datel (Action Replay) cominciarono a produrre cartucce per le principali console di gioco e home computer che consentono di alterare le caratteristiche dei videogiochi in vari modi: il modo più utilizzato proprio quello di introdurre cheat di vario tipo, dall’immortalità di fatto (il c.d. God Mode) a ulteriori vantaggi.

Gli sfacciati spot di Game Genie descrivevano la cartuccia come un Game Enhancer, un “perfezionatore del gioco” e l’utente medio come il vero Signore e Padrone dei giochi da lui comprati, pronto a dettare le condizioni dello stesso game over.

Lewis Galoob Toys, Inc. v. Nintendo of America, Inc. evidenzia quindi un paradosso e una serie di principi giuridici: un ecosistema videoludico che in esso ha già il germe del cheat, dal Konami Kode fino alle riviste specializzate, si scopre intollerante verso un game enhancer in grado di far saltare Mario più in alto o aumentare il numero di vite. La scelta è tra un utente passivo fruitore e un utente diventato arbitro attivo della sua esperienza, ribelle verso le condizioni di accesso al mondo della fantasia.

Galoob si rivolse alla Corte Distrettuale del Distretto della California del Nord per ottenere una declaratoria di legittimità del Game Genie, e per l’effetto dei Game Enhancer, Nintendo si oppose ed entrambe vergarono una serie di principi che ancora hanno eco.

Nintendo non poté che insistere sulla natura derivativa dei giochi “creati” da Game Genie, postulando l’esistenza di un mondo onesto coi loro giochi e un “sottobosco” di versioni alterate. Alla luce di 17 U.S.C.A. § 106(2) (Derivative works); 17 U.S.C.A. § 107 (the United States Fair Use Doctrine), il Nono Circuito della Corte di Appello decise che una cartuccia cheat non era un lavoro derivativo.

Gli spot avevano ragione: i cheat migliorano e non rimpiazzano l’output audiovideo dei giochi. Nintendo, a dire del Nono Circuito, non era riuscita a dimostrare l’esistenza di un vulnus alle vendite dei propri giochi, né di aver interesse a creare “versioni modificate” dal cheat (accadrà ironicamente nel 2018, con le versioni “SP” dei giochi in raccolta dell’era NES e SNES in abbonamento per gli utenti Nintendo Switch), non aveva dimostrato un danno alla propria immagine e mercato, ma Galoob aveva nobilitato il gamer come signore della propria esperienza.

Per usare i cheat su cartuccia dovevi avere il gioco originale: il contrario sarebbe stato come vietare, citando il paragone usato dalla corte, i sistemi di correzione ortografica venduti all’epoca come “extra” dei primi programmi di videoscrittura, o la vendita dei videoregistratori perché possono essere usati per alterare la fruizione di materiale audiovisivo.

Siamo nei primi anni ’90: nella battaglia tra l’Uomo e la Macchina, per una volta John Henry riesce a trionfare sulla trivella a vapore senza rimetterci la vita.

E la Macchina raccoglie i suggerimenti del “cheater”, con Game Genie diventato un “prodotto approvato” da SEGA (all’epoca uno dei “grandi due” con Nintendo), e la prosecuzione del cheat come extra di taluni giochi (Doom, SimCity, Age of Empires)…

Almeno per una decade.

La nuova etica online: l’era dell’eSport

L’ecosistema del giocatore, con l’introduzione di quelli che avremmo chiamato eSport, vede un nuovo modello commerciale, che a sua volta diventa guida verso un nuovo modello giuridico e una nuova forma di “resistenza alla Macchina”.

Se scarni sono i riscontri nella giurisprudenza e nell’esperienza Italiana, assai vivo e verace è il tema di discussione aperto.

Un “passatempo per gente sfaccendata immeritevole di tutela” diventa una vera e propria disciplina para-sportiva, se non sportiva, e il fascino del gioco viene legato a doppio filo ad una spiccata componente competitiva tradotta in vere e proprie classifiche.

Esempi si possono trovare in Take-Two Interactive Software, Inc. v. Does (1:19-cv-02371), per cui il modello attuale “39. dipende dal perpetuare una reputazione positiva tra i consumatori di videogiochi, sicché essi continuino ad acquistare i videogiochi di Take-Two, giocare a GTA Online e continuare ad acquistare gli oggetti in valuta digitale all’interno dei suoi giochi. 40. La violazione intenzionale da parte dei Convenuti danneggia il rapporto di Take-Two con i suoi clienti e priva Take-Two di entrate.” (cfr. pag. 16 atto introduttivo di giudizio) e Riot&Bungie vs GatorCheats ,  di simile contenuto e terminata con un cospicuo accordo stragiudiziale in favore di Riot Games.

Una “lega screditata” non attira iscritti, gli utenti che abbandonano un gioco riconosciuto come non più competitivo cessano di essere potenziali utenti e quindi potenziale fonte di reddito.

Si distinguerebbero dunque i provvedimenti contro l’utente finale, sottoposto all’interruzione unilaterale del contratto con l’esclusione dal servizio e la posizione del venditore di hack e cheat, esposto alla severità del diritto.

Ci si trova in un campo abbastanza nuovo e aleatorio, con pochi precedenti sul suolo e sulla legislazione Italiana, mentre nel campo penale-autoriale abbiamo qualche riscontro in più.

Dal punto di vista legale: 2001/29/CE, DMCA e UCPA

In base all’art. 171 ter della vigente normativa sul diritto d’Autore, risulta sanzionabile colui che “fabbrica, importa, distribuisce, vende, noleggia, cede a qualsiasi titolo, pubblicizza per la vendita o il noleggio, o detiene per scopi commerciali, attrezzature, prodotti o componenti ovvero presta servizi che abbiano la prevalente finalità o l’uso commerciale dì eludere efficaci misure tecnologiche di cui all’art. 102 quater ovvero siano principalmente progettati, prodotti, adattati o realizzati con la finalità di rendere possibile o facilitare l’elusione di predette misure. Fra le misure tecnologiche sono comprese quelle applicate, o che residuano, a seguito della rimozione delle misure medesime conseguentemente a iniziativa volontaria dei titolari dei diritti o ad accordi tra questi ultimi e i beneficiari di eccezioni, ovvero a seguito di esecuzione di provvedimenti dell’autorità amministrativa o giurisdizionale

Enfasi sia data a “prevalente finalità o uso commerciale di eludere efficaci misure tecnologiche”, quali quelle citate in prospettiva.

Normativa Italiana, nel caso di specie, sovrapponibile alla normativa americana DMCA 1201 ed Europea 2001/29/Ce

Si sommi a questo l’Unfair Competition Prevention Act Giapponese e come esso sia stato più che sovente brandito come mezzo per combattere i c.d. majikon (lett. Magic Computer, dall’uso quasi “magico” degli stessi), ovvero il complesso di strumenti tecnici eredi del Game Genie che consentono di caricare su una console copie dei giochi su cartuccia con hack incorporato e i semplici hack e il quadro per il pirata comincia ad assumere tinte fosche.

Hack, cheat e majikon possono rientrare nel concetto di “tutte le tecnologie, i dispositivi o i componenti che, nel normale corso del loro funzionamento, sono destinati a impedire o limitare atti non autorizzati dai titolari dei diritti” di cui al citato 102 quater, nonché alla direttiva 2001/29/CE, diritti che ormai sono ampiamente descritti nei termini di servizio dei principali produttori, come ad esempio Take Two (artt. 6-14 delle TOS), Activision (artt. 1-7) e Riot Gamers (capitolo 7.10), e nell’interpretazione giurisprudenziale corrente, sovente tendono a farlo.

Il digitale sembra scavallare il campo e dettare le condizioni alle quali potrai fruire di un prodotto su cui ritieni avere signoria. Le sempre sottoscritte, ma giammai lette (almeno dall’utente medio) condizioni di uso diventano feroci guardiane di cosa puoi fare del prodotto da te comprato, spingendosi a disciplinare persino di cosa parlare. Video di gameplay e scenette machinima, ovvero interpretazioni coi personaggi di gioco? Ammesso. Diffondere anche solo la conoscenza del cheat? Assolutamente no.

Il pirata: baro o resistente digitale?

Si può ora tornare al concetto di efficaci misure tecnologiche di protezione, e quanto sovente il cheater ne diventi argine e strumento di misura.

Si apprendono ad esempio dalla sentenza della Corte di Giustizia, 23 gennaio 2014, causa C-355/12, (pubblicata in «Foro italiano», 2014, f. 4, col. 200) due elementi:

  1. la protezione giuridica è accordata esclusivamente alle misure tecnologiche che perseguono l’obiettivo di impedire o eliminare, per quanto riguarda le opere, gli atti non autorizzati dal titolare di un diritto d’autore.
  2.  «le [predette] misure devono essere adeguate alla realizzazione di tale obiettivo e non eccedere quanto necessario a tal fine»

Il sistema Vanguard di Riot Games, uno dei principali watchdog, programmi utilizzati per impedire l’uso di hack e cheat è a tutti gli effetti un sistema ad accesso “Ring 0”, in grado di controllare le funzioni del PC del giocatore a livello di kernel, ovvero al livello più alto possibile, pari allo stesso sistema operativo.

Gli addetti ai lavori hanno avuto veri e propri flashback del Sony Rootkit, uno dei momenti della storia del videogioco in cui è diventata drammaticamente chiara l’esigenza di “evitare che i DRM trascendessero da strumenti di difesa passiva a strumenti di ”polizia privata” che consentano l’illecita intrusione non autorizzata nei sistemi informatici del licenziatario attraverso l’accettazione di condizioni contrattuali che non vengono nemmeno lette da chi accetta, o addirittura in potenti strumenti di marketing che forniscano senza idonee basi giuridiche informazioni su clienti attuali e potenziali a favore del titolare e di terzi.” (cfr. E. Palazzolo, “Misure tecnologiche di protezione dei diritti di proprietà intellettuale: mostri giuridici o ancore di salvezza?”).

Certo, non è scopo di questa esposizione insinuare che un editore possa abusare del suo potere. Si provi però a indossare i panni di un utente “evoluto” e smaliziato, in grado di comprendere a fondo le dinamiche e le implicazioni di tali programmi. Per tale utente, mantenere il maggior controllo possibile sul suo sistema è un comprensibile atto di resistenza.

Questi potrebbe guardare con sospetto, quasi fastidio, a meccanismi come il watchdog e percepire come una possibile invasione della privacy, la condivisione dello schermo, dove moderatori controllano remotamente la presenza di cheat e hack mediante accesso diretto al suo desktop e all’elenco dei programmi operanti sul suo computer.

Parliamo di un utente promosso a resistente digitale che vede la sua scelta di barare come una consapevole scelta di resistenza al sistema, nell’estremo tentativo di rivendicare la signoria piena del suo universo digitale.

Vieppiù! Al di fuori del rimedio legale, le stesse misure tecnologiche di protezione comportano un apparato sanzionatorio imperscrutabile: ci sono casi registrati di computer bannati “riabilitati” col solo obolo del cambio delle memorie di massa, derubricando così il ban a questione squisitamente economica di fatto.

In taluni casi il resistente digitale moderno ha potuto portare in aula un atto di ribellione divenuto la scintilla che ha acceso il fuoco della riflessione. Parliamo di Tribunale di Catania – Sezione IV Penale – Sentenza 28 aprile-4 maggio 2016 nr. 2409, che ha aperto la via ad un uso consapevole dei majikon, le “cartucce cheat” per console Nintendo DS, in grado di consentire l’uso di duplicati non autorizzati  dei giochi originali e inserirvi cheat non autorizzati, ma anche di consentire l’uso di programmi homebrew, ovvero “fatti in casa” o da indipendenti, incrementare le prestazioni della console usandola ad esempio come lettore audio-video e continuare ad usare una console regolarmente acquistata anche dopo la chiusura dei servizi online per essa offerti e il ritiro dal mercato dei giochi fisici disponibili a scaffale per obsolescenza.

Il Tribunale Etneo non potè che “scagionare” il majikon, rifacendosi alla Corte di Lussemburgo per concludere che acquista rilevanza decisiva la prova delle concrete modalità di utilizzo dei dispositivi che si assumono leciti.

Appare condivisibile la posizione di A.S. Gaudenzi in Guida al Diritto, 8 ottobre 2016 (Va sempre analizzato l’uso effettivo della tecnologia) per cui “si deve sempre analizzare l’uso effettivo fatto della tecnologia, senza procedere ad una demonizzazione automatica dello strumento”, e senza considerarla “un cattivo maestro a prescindere”.

Altri casi in cui la scintilla della resistenza ha portato il Mondo Digitale a riflettere sulle richieste del Baro sono state le apparizioni delle citate “versioni SP” nei pacchetti retro Nintendo e il ricco tema di discussione, che si riapre ad ogni end of life di una console (con Nintendo WiiU e 3DS abbandonate di fatto proprio nel mese di Aprile di quest’anno) che assegna ai majikon il compito “nobilitato” dal Tribunale Etneo di preservare e archiviare programmi e giochi che altrimenti andrebbero persi (si calcola una percentuale intorno all’87% della storia del videogame potenzialmente salvato da hacker e cheater).

Non è impossibile, anzi diviene probabile secondo la regola dell’arte, trasformare un tentativo di cancellare gli hack e cheat prima di un controllo manuale, il citato screenshare, in un vero e proprio ravvedimento operoso, dal medesimo effetto del cambio di memorie di massa o computer, ma dagli effetti tecnici più aderenti ai canoni di proporzione e adeguatezza.

Sono state registrate sin qui le possibilità apparse finora: non è oggetto di questo testo formulare ulteriori proposte. Ciò posto, cheat, hack e majikon viaggiano su quell’argine sottile tra il diritto del produttore a tutelare la sua creatura e il tentativo del “cittadino digitale” di rivendicare un suo spazio di libertà, assumendosi però il rischio di rinchiudersi in una Isola di Tortuga digitale che quantomeno ci lascerà ambiti di discussione.

Legali? Illegali? Lo si valuterà caso per caso. Cibo per il pensiero? Sicuramente, e come tale, seme delle future riflessioni sullo stato della tecnica e del diritto.

PAROLE CHIAVE: cheat / diritto d’autore / DMCA / esport / Misure adeguate di protezione / proprietà / UCPA / videogame / watchdog

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